Commento all’art. 11 l.r. n. 14/2019: A. Analisi normativa – B. Cenni critici su alcuni problemi connessi all’art. 11
Cenni critici su alcuni problemi connessi all’art. 11
di Stefano Bigolaro
Sommario: 1. d.m. 1444/1968: la prudenza della nuova legge – 2. Il rapporto del legislatore regionale con il d.m. 1444: una storia bloccata – 3. Una cosa per ora da non fare: derogare di nuovo – 4. L’intervento del legislatore statale sul d.m. del 1968 – 5. Una scelta non obbligata: il permesso convenzionato necessario – 6. Volumi da PRG e volumi da piano casa – 7. L’ultrattività del pregresso piano casa e i problemi rimasti aperti – 8. Gli ampliamenti in zona agricola – 9. I parametri del regolamento edilizio tipo: un problema solo rimandato – 10. La monetizzazione delle aree non cedute
1. Il d.m. 1444/1968: la prudenza della nuova legge
I rapporti della legislazione regionale (peraltro non solo quella veneta) con il d.m. 1444/1968 scontano, ad oggi, una situazione sostanzialmente bloccata.
Ciò ha reso problematica – con particolare riferimento alle distanze dai confini e conseguentemente alle distanze tra costruzioni – l’applicazione del previgente “Piano Casa” (quello posto dalla legge regionale 14/2009 e successive modificazioni): gran parte delle difficoltà concrete e dei contenziosi sono nati proprio da questi temi. Ed è su tale questione che interviene ora il primo comma dell’articolo 11 della l.r. n. 14/2019, prospettando una soluzione decisamente prudente.
Da un lato esso conferma che gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 della nuova legge – cioè quelli di ampliamento e di riqualificazione del tessuto edilizio – possono derogare ai parametri edilizi di superficie, volume e altezza previsti nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici comunali. Ma non prevede più la possibilità di deroga alle distanze dai confini; tema che si collega appunto a quello delle distanze tra costruzioni disciplinate dal d.m. 1444 del 1968, giacché in giurisprudenza si è ritenuto che le prime possano non essere altro che un modo di ripartizione delle seconde tra lotti confinanti.
D’altro lato, la disposizione in esame prevede espressamente anche la deroga al d.m. 1444/1968 quanto ai parametri edilizi di altezza, densità e distanze, purché “nell’ambito di strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi”.
È una norma, quella del comma 1 dell’art. 11, che nasce dal dover prendere atto della realtà: cioè, della sostanziale “intoccabilità” del d.m. 1444/1968.
La questione si pone soprattutto con riferimento alle distanze (art. 9 del d.m.), anche perché è con riferimento alle distanze che vengono, in ogni caso, in gioco i diritti dei terzi quali proprietari confinanti. Ma riguarda anche i limiti di densità e le altezze (art. 7 e 8 del d.m. 1444).
2. Il rapporto del legislatore regionale con il d.m. 1444: una storia bloccata
La storia è nota.
In particolare, per quanto riguarda le distanze, questi – in sintesi – i dati.
La distanza tra le costruzioni interessa l’ordinamento civile e quello amministrativo.
Sotto il primo profilo, rileva il codice civile: e dunque l’articolo 873, che prevede che tra le costruzioni vi sia – salve le ipotesi di unione o di aderenza – una distanza non minore di tre metri, che può essere aumentata nei regolamenti locali. E rileva l’art. 872, che consente al privato di chiedere al giudice la riduzione in pristino della costruzione che viola le distanze.
Sotto il secondo profilo, rileva il d.m. 1444 del 1968 (che, peraltro, integra la normativa codicistica). Esso ha una base legislativa nella legge 765 del 1967, e – come noto – prescrive i 10 metri tra pareti finestrate (o meglio, tra pareti di cui almeno una sia finestrata).
Il d.m. è posto per regolare gli atti pianificatori; ma rileva direttamente, perché si ritiene che le disposizioni pianificatorie contrastanti con esso vadano disapplicate.
E contiene una disposizione di deroga (art. 9 ultimo comma), che consente distanze inferiori nel caso di gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche.
Nel corso del tempo, vari sono stati i tentativi delle Regioni di sottrarsi in qualche modo al d.m. del 1968, che però è diventato – nella giurisprudenza della Corte – l’insuperabile parametro della loro costituzionalità. Così nel Veneto, ad esempio, l’articolo 50 comma 8 della legge regionale 11/2004 è stato subito cassato dalla Corte con la sentenza 232/2005.
È sembrata aprirsi una nuova prospettiva quando il decreto-legge 69 del 2013 ha introdotto l’articolo 2 bis del d.P.R. 380/2001, che pareva consentire alle Regioni di derogare al d.m. 1444 – non solo per le distanze – in ipotesi più ampie di quelle originariamente previste dall’art. 9 u.c. del medesimo d.m. 1444/1968.
Si è però rivelata una vera e propria “trappola”. Di fronte alle deroghe al d.m. 1444/1968 via via introdotte da nuove norme regionali, la Corte costituzionale ha infatti statuito che l’art. 2 bis non ha in realtà previsto nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto nel d.m. A farne le spese, nel Veneto, un passaggio dell’art. 8 della l.r. n. 4/2015 relativo agli “interventi disciplinati puntualmente”, dichiarato incostituzionale con la sentenza 41 del 2017.
Il problema ha anche toccato direttamente il “Piano Casa” previgente.
Sotto un primo profilo, dopo che il TAR Veneto aveva mutato la propria giurisprudenza giungendo a ritenere inderogabili le distanze dai confini, una disposizione della legge regionale 30 del 2016 ha interpretato autenticamente il “Piano Casa” affermando appunto che esso deroga alla distanza dai confini. Ma la questione della costituzionalità di tale norma interpretativa è attualmente pendente in Corte, cui è stata sottoposta dal TAR Veneto (con ordinanza n. 1166/2018).
Sotto un secondo profilo, sempre sulla scorta dell’articolo 2 bis del d.P.R. 380 la legge regionale 32 del 2013, cioè il cosiddetto “Piano Casa ter”, ha consentito una deroga al d.m. in tema di altezze (con l’articolo 9 comma 8 bis). Ma anche questa disposizione è ora avanti la Corte, cui è stata sottoposta con ordinanza del Consiglio di Stato (con ordinanza n. 1431/2019).
3. Una cosa per ora da non fare: derogare di nuovo
In questa situazione, il progetto originario della nuova legge, il numero 402, prevedeva che, in attuazione dell’articolo 2 bis del d.P.R. 380, gli interventi consentiti potessero derogare ai parametri di altezza e densità del d.m. n. 1444/1968.
La previsione era evidentemente “a rischio”, come da più parti è stato fatto notare (in particolare, in sede di audizione sul disegno di legge, dall’Associazione veneta degli avvocati amministrativisti).
Stante la pendenza dei giudizi in Corte sopra ricordati, la soluzione più semplice per il legislatore regionale sarebbe stata forse quella di non disporre nulla in tema di deroghe, attendendo le future pronunce della Corte (le quali comunque, quando interverranno, potranno avere rilievo anche nel contenzioso avanti al giudice civile, eventualmente ingenerandone di nuovo); oppure attendendo che sia il legislatore statale a consentire davvero un’effettiva possibilità di deroga al d.m. del 1968 da parte delle Regioni (v. infra in merito al cd. decreto “sblocca cantieri”).
È prevalsa tuttavia la volontà politica di prevedere comunque nella nuova legge regionale la possibilità di deroga; ma ciò è stato fatto (e non poteva che essere fatto) alle condizioni poste dalla Corte costituzionale (ed individuate sulla scorta dell’articolo 2 bis del d.P.R. n. 380/2001, inteso dalla Corte come sostanzialmente ripetitivo dell’ultimo comma dell’articolo 9 dello stesso d.m.). Insomma, il legislatore regionale ha posto delle condizioni per la deroga che già stanno, in realtà, nella normativa statale.
Ne è uscita una norma regionale difficilmente censurabile sotto il profilo della costituzionalità, ma probabilmente inutile sul punto. Una norma che lascia nella sostanziale impossibilità di valersi davvero di quella deroga pur menzionata dalla disposizione di legge. Non è dunque mancata la volontà del legislatore regionale di affrontare il problema, ma – allo stato – la possibilità di farlo.
In concreto, se – come prevede l’art. 11 – è necessario un piano attuativo per derogare al d.m., deve esserci una perimetrazione dell’ambito di tale piano attuativo. Se non c’è, sarà necessario provvedervi a livello di pianificazione generale, e in specie nel piano degli interventi (in conformità all’inquadramento generale dei rapporti tra piani). Ma se è necessario un passaggio attraverso il piano degli interventi, allora la cosa perde di ogni utilità.
In altri termini: dover passare attraverso la pianificazione per consentire un intervento di “Piano Casa”, per sua natura derogatorio rispetto alla pianificazione, risulta contraddittorio.
Deve inoltre ricordarsi che, in conformità alla prevalente giurisprudenza ed anche alla stessa formulazione della nuova norma (che si riferisce a previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi), la deroga al d.m. 1444/1968 presuppone che i fabbricati da considerare siano tutti interni al piano attuativo, ciò che ne rende ancor più difficile la pratica operatività (anche perché, specie con riferimento ai parametri dell’altezza e della densità, il numero e la collocazione dei fabbricati da considerare può portare a degli ambiti di piano particolarmente ampi).
Rispetto a tali (sconfortanti) conclusioni, l’alternativa potrebbe essere che sia chi propone il piano attuativo a presentare, insieme ad esso, anche la perimetrazione dell’ambito di piano (coinvolgendo tutti i proprietari delle aree interessate).
Ma non mancano le difficoltà.
Difficoltà sotto il profilo giuridico, perché la regola generale che gli ambiti di piano attuativo stiano già nei PRG (ex art. 17 l.r. n. 11/2004) non sembra poter essere derogata da una norma (l’articolo 11 in esame) che nulla dice sul punto. Bisognerebbe presumere che i PUA “derogatori” di cui all’articolo 11 siano diversi dagli altri PUA, e quindi godano di una facoltà di libera perimetrazione dell’ambito che tuttavia non è neanche prevista: e il sospetto sarebbe quello di un utilizzo “di comodo” dei PUA al solo fine di derogare al d.m. 1444. Si porrebbe inoltre un problema di competenze: se ad approvare la perimetrazione è il Consiglio – come tradizionalmente si ritiene – allora il percorso procedimentale diventa piuttosto articolato, con una perimetrazione consiliare seguita da un’adozione e da un’approvazione del piano attuativo in Giunta.
E difficoltà sotto il profilo fattuale, perché mancherebbe un coordinamento tra tutti gli ambiti di piano attuativo che possano essere individuati in relazione agli specifici interventi da realizzare. Insomma: se ciascun proprietario può chiedere autonomamente la definizione dell’ambito che gli serve per giustificare il proprio intervento, le conseguenze ben possono essere anche di sovrapposizione tra ambiti (ciò che darebbe vita a una tematica pur interessante, ma comunque problematica).
4. L’intervento del legislatore statale sul d.m. del 1968
È peraltro entrato ora in vigore il decreto-legge 32 del 2019 (cd. “sblocca cantieri”), convertito con legge 55/2019, il cui art. 5 è certamente rilevante ai nostri fini.
In astratto, un intervento del legislatore statale sembra in effetti l’unico modo attraverso cui la situazione attuale può essere modificata.
Ma è certo difficile pensare che la soluzione possa essere fornita intervenendo con lo strumento del decreto-legge su una situazione consolidatasi nell’arco di mezzo secolo; specie dopo che in tale situazione già si è avuto un pregresso e non riuscito intervento legislativo che, con il decreto-legge n. 69/2013, ha introdotto – con l’art. 2 bis del d.P.R. n. 380/2001 – una norma o inutile (se ripetitiva dell’art. 9, u.c., del d.m. 1444/1968) o non chiara (se voleva davvero ampliare le ipotesi di deroga al d.m.).
C’erano comunque molte attese sul possibile superamento del d.m. 1444/1968; ma i contenuti del d.l. 32/2019 non paiono corrispondere a quelle attese (nonostante l’enunciazione – nell’art. 5 della nuova legge – di lunga serie di obiettivi, dalla “drastica riduzione del consumo del suolo” alla “rigenerazione del patrimonio edilizio esistente”, che farebbero pensare a un intervento di ampio respiro).
1. Una prima disposizione posta dall’art. 5 del d.l. n. 32/2019 – ma che non è stata poi convertita – si limitava a stabilire che all’articolo 2 bis, comma 1, del d.P.R. 380 le parole “possono prevedere” – cioè, le Regioni possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al d.m. 1444 – fossero sostituite dalla parola “introducono”; mentre le parole “possono dettare” – cioè, possono dettare disposizioni sugli standard – fossero sostituite dalla parola “nonché”.
Certo, le parole sono importanti. Però queste modifiche “chirurgiche” non avrebbero cambiato in modo sostanziale i termini della questione. Non bastavano cioè le modifiche alla formulazione letterale dell’art. 2 bis, co. 1, d.P.R n. 380/2001 per trasformare la “facoltà” in un “obbligo”; si sarebbe trattato solo di una sollecitazione dell’intervento legislativo regionale. Sollecitazione e non obbligo, anche perché non era e non è chiaro quali contenuti possa avere l’intervento legislativo regionale sollecitato.
E la mancata conversione di questa disposizione induce a pensare che ne sia stata percepita l’inconsistenza.
2. Al primo comma dell’articolo 2 bis cit. ne vengono ora aggiunti altri due.
Il comma 1 bis precisa che le disposizioni legislative regionali di deroga al d.m. 1444/1968 devono servire di “orientamento” ai Comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati.
A una condizione: che la definizione intervenga negli ambiti urbani consolidati. Ciò che ragionevolmente si riconnette alle finalità indicate nell’esordio dell’art. 5 del decreto-legge 32/2019, tra cui quella di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente.
Se la volontà del legislatore è chiaramente espressa, il suo oggetto non sembra tuttavia possibile.
Si ritorna infatti al punto di partenza: il presupposto è che vi sia un intervento legislativo regionale che comporti il superamento di ciò che fino ad oggi ha sempre costituito un limite invalicabile per le Regioni (come dimostrato dalle pronunce della Corte costituzionale che hanno giudicato incostituzionali le varie disposizioni regionali che hanno tentato di derogare al d.m. del 1968: cfr. Corte Cost., n. 178/2016; n. 185/2016; n. 231/2016; n. 41/2017).
È sulla scorta di questo ipotetico intervento legislativo regionale che i Comuni dovrebbero in concreto essere “orientati” nella definizione delle deroghe.
Ma non è chiaro su che cosa l’intervento legislativo regionale possa fondarsi, dal momento che la disciplina di legge statale rimane sostanzialmente invariata sul punto centrale: sulle condizioni, cioè, in presenza delle quali è consentita la deroga al d.m. n. 1444/1968 (sempre quelle dell’ultimo comma dell’articolo 9 dello stesso d.m.?). E dal momento che, di conseguenza, non risultano chiare le ragioni che dovrebbero indurre la Corte a mutare la propria posizione.
3. Il nuovo comma 1 ter dell’art. 2 bis cit. prevede inoltre che in ogni caso di demolizione e ricostruzione, quest’ultima sia consentita nel rispetto delle distanze preesistenti, assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito, nonché il rispetto dell’altezza massima dell’edificio demolito.
La disposizione – pur non riferendosi alla ristrutturazione edilizia – è in linea con la progressiva espansione di tale categoria di interventi, come definita dall’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 (nelle sue successive modificazioni).
È soprattutto sulla base di tale categoria, distinta rispetto a quella di nuova costruzione, che la giurisprudenza ha ammesso che gli interventi di demolizione e ricostruzione, in quanto riconducibili alla ristrutturazione, consentano di realizzare una nuova costruzione alla medesima distanza di quella preesistente, anche se non rispettosa del d.m. del 1968; ritenendo che solo in casi eccezionali, caratterizzati dalla realizzazione di un’opera oggettivamente diversa per volume – i.e., ristrutturazione con ampliamento – o per collocazione, la qualificazione dell’intervento come di ristrutturazione edilizia non basti a derogare al d.m. 1444/1968: cfr. ad es. Cass. civ., sez. II, 30 giugno 2017, n. 16268.
Ma la progressiva espansione della categoria della ristrutturazione edilizia, nella quale ciò che rimane fermo finisce per essere la sola volumetria, consente ormai che un edificio ristrutturato abbia un sedime non coincidente con quello dell’edificio originario.
In linea con questa espansione è la normativa posta nel Veneto dall’art. 10 della l.r. n. 14/2009, mantenuto in vigore dalla legge regionale n. 14/2019.
Tale disposizione regionale da un lato, alla lettera a), prevede che gli interventi di ristrutturazione edilizia possano compiersi con l’integrale demolizione delle strutture murarie preesistenti purché la nuova costruzione sia realizzata con il medesimo volume o con un volume inferiore; e, d’altro lato, disciplina espressamente, alla lettera b), gli interventi di ristrutturazione edilizia con ampliamento realizzati mediante integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente: sono interventi “misti”, considerati, per la parte in cui mantengono i volumi esistenti, quali ristrutturazione edilizia ai fini delle prescrizioni in materia di indici di edificabilità e di ogni ulteriore parametro quantitativo.
Tutto ciò non rileva però per le distanze.
Quanto alle distanze, infatti, né la nozione generale di ristrutturazione edilizia posta dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 né l’art. 10 della l.r. 14/2009 possono derogare al d.m. del 1968.
Insomma, non può essere consentito che un intervento di demolizione e ricostruzione comporti una deroga alle distanze ulteriore rispetto a quella già integrata dal preesistente manufatto (nelle condizioni di sedime, volume e altezza massima che lo caratterizzavano).
Nell’ambito della legislazione veneta, in particolare, non rileva al riguardo la previsione di cui alla lett. b – bis del primo comma dell’art. 10 l.r. n. 14/2009, che riconduce alla categoria della ristrutturazione edilizia gli interventi di ricostruzione su area di sedime parzialmente diversa: è norma che vale ai fini delle procedure autorizzatorie necessarie all’intervento, e non ai fini delle distanze.
In tale quadro, il nuovo comma 1 ter dell’art. 2 bis del d.P.R. n. 380/2001 – introdotto dal d.l. n. 32/2019 – in realtà non muta la situazione esistente, né modifica quelli che già sono i parametri di riferimento, pretendendo che – ai fini delle distanze – vi sia identità di volume, sedime e altezza tra fabbricato demolito e fabbricato ricostruito.
Ma è comunque una disposizione che potrà avere un’importanza anche notevole in termini di chiarezza, di eliminazione delle incertezze legate alla qualificazione dell’intervento. Distingue infatti, e correttamente, il tema delle distanze dalla (complessa) nozione di ristrutturazione edilizia, ponendo una norma che è in realtà di sistema.
Ma, appunto, il rilievo della disposizione in esame si manifesta sotto questo profilo, e non ai fini di una effettiva espansione della potestà legislativa regionale nei confronti del d.m. 1444 del 1968. E dunque, se la Regione confidava nell’intervento legislativo statale per poter fondare su di esso le proprie future scelte legislative, o sanare quelle già assunte nel “Piano Casa” previgente, deve ancora attendere qualcosa in più rispetto a questo decreto-legge.
4. Un’ulteriore disposizione in tema di distanze è infine posta dall’articolo 5, primo comma, del d.l. 32/2019 (che, dopo la conversione con legge 55/2019, reca una nuova lettera b – bis), il quale fornisce una sorta di interpretazione autentica di una specifica previsione del d.m. 1444 del 1968.
Il d.m. del 1968, dopo aver stabilito la distanza minima da rispettarsi tra i fabbricati nelle diverse zone urbanistiche, pone una disciplina specifica per i casi in cui tra i fabbricati sia interposta una strada, stabilendo che in tal caso le distanze debbano corrispondere alla larghezza della sede stradale con delle maggiorazioni per ciascuno dei due lati.
Un tema da sempre oggetto di dibattito, a causa di una formulazione non chiara del d.m. 1444/1968 sul punto, è quello dell’applicabilità di tale specifica disciplina anche alle zone B oltre che alle zone C.
In realtà sembrerebbe forse più aderente al dato testuale del d.m. che la distanza tra fabbricati con strada interposta valga sia per le zone C sia per le zone B.
Ma l’interpretazione autentica ora fornita dal legislatore è perentoria nell’affermare che il limite si applica esclusivamente alle zone C.
Ed è certo una precisazione utile; ma neppure essa integra un intervento di radicale modifica della tematica in esame.
5. Una scelta non obbligata: il permesso convenzionato necessario
Le problematiche poste dal secondo comma dell’art. 11 riguardano non più il d.m. 1444 del 1968, ma l’utilizzo dello strumento del permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del d.P.R. 380/2001, che viene ora prescritto per tutti gli interventi di maggior impatto realizzati grazie alla nuova legge: quelli cioè che portano alla realizzazione di un edificio superiore ai 2000 metri cubi o con un’altezza superiore del 50% rispetto all’edificio oggetto di intervento (questo sembra il senso della norma, anche se la sua formulazione – “altezza superiore al 50% rispetto all’edificio oggetto di intervento” – appare letteralmente un po’ diversa).
L’uso del permesso di costruire convenzionato ha certo grande rilievo nel quadro generale della nuova legge. Gli interventi previsti – ai sensi dell’art. 3 co. 2 – non possono prescindere dalla necessità delle opere di urbanizzazione, e dunque l’utilizzo di tale strumento è quantomai adeguato proprio perché risponde a quelle “esigenze di urbanizzazione” che “possano essere soddisfatte con modalità semplificata” (art. 28 bis cit.).
Rinviando sul punto a quanto esposto nell’ampio commento dell’articolo 10 contenuto nella presente opera, è sufficiente qui ricordare una considerazione di immediata evidenza: l’urbanizzazione non è in un rapporto automatico con la misura dell’intervento.
Dunque, l’aver prescritto lo strumento procedimentale del permesso convenzionato per ogni ipotesi di superamento di una certa soglia dimensionale non risponde a una scelta necessitata. Risponde probabilmente a una esigenza diversa, volendosi lasciare un maggior spazio valutativo in sede locale sugli interventi di più ampia portata consentiti dalla nuova legge.
Rilevante al riguardo è che il permesso convenzionato richieda il passaggio in Consiglio comunale, sempre alla stregua del citato articolo 28 bis. Tale norma consente peraltro alle Regioni di disciplinare diversamente la competenza all’approvazione della convenzione: ciò che però il legislatore regionale non ha ritenuto di fare in questa occasione (non essendovi pertanto dubbi sulla persistente competenza consigliare al riguardo).
Certo sembrerebbe crearsi in tal modo una sorta di paradosso nelle competenze. Se alla stregua del primo comma dell’articolo 11 l’intervento si pone in deroga al d.m. 1444 del 1968, per regola generale (posta dal decreto-legge 70 del 2011) spetta infatti alla Giunta la competenza all’adozione e all’approvazione del necessario piano attuativo. Se invece l’intervento non sia in deroga al d.m., ma superi una certa soglia dimensionale, si rende necessario il suo passaggio in Consiglio. Ma il paradosso è in realtà solo apparente, perché – come sopra si è visto – un passaggio in sede di pianificazione generale o di perimetrazione consiliare appare comunque obbligato anche nel caso di piano attuativo.
Sembra infine quasi frutto di un refuso – cioè dell’indebita ripetizione di un passaggio del primo comma – il riferimento del secondo comma alle previsioni planivolumetriche.
Non è però un problema: tali previsioni in un permesso di costruire convenzionato ci sono comunque. E certo non si può caricare il passaggio – scritto senza altre precisazioni – di alcuno specifico significato prescrittivo (come ad esempio quello di imporre la contestualizzazione, con un planivolumetrico, dell’intervento nel suo rapporto con il territorio circostante).
6. Volumi da PRG e volumi da Piano Casa
Il terzo comma dell’articolo 11 costituisce il tentativo di chiarire il rapporto, da sempre problematico, tra capacità edificatoria riconosciuta nella pianificazione urbanistica comunale e capacità edificatoria riconosciuta direttamente dal legislatore.
Il discorso coinvolge evidentemente i punti fondamentali del rapporto tra pianificazione comunale e intervento legislativo che prevalga su di essa, nonché del rapporto tra Enti locali e Regione nella disciplina e nello sviluppo del territorio.
In concreto, il terzo comma dell’articolo 11 interviene sul cumulo tra incrementi dimensionali di diversa origine (di PRG e di legge).
Al riguardo, la situazione è ora caratterizzata dall’inaspettata e importante sentenza del TAR Veneto n. 513 del 15 maggio 2018. Essa muove dall’affermazione che il “Piano Casa” veneto consenta l’ampliamento solo quando non sia possibile realizzarlo con le ordinarie previsioni di PRG. Ma la conclusione è radicale: dalla priorità delle previsioni volumetriche del PRG si arriva ad affermare il divieto di cumulo in un unico intervento di entrambi i premi volumetrici. Ed è una conclusione non in linea con la generale prassi interpretativa e operativa finora seguita, avendo di regola i Comuni consentito interventi che sono frutto della sommatoria delle diverse volumetrie (pur avendo dovuto tenere conto delle differenti caratteristiche e specificità di tali volumetrie).
Il terzo comma dell’articolo 11 risolve tale questione. Conferma infatti la priorità temporale nell’utilizzazione della capacità edificatoria attribuita dal PRG; ciò che costituisce l’affermazione di base della sentenza 513/2018. Ma supera questa regola subito dopo averla enunciata, giacché consente che la capacità edificatoria di PRG possa essere utilizzata “anche contestualmente” agli interventi previsti dalla nuova legge, statuendo anzi che gli interventi possano essere realizzati in più fasi fino al raggiungimento degli incrementi volumetrici e di superficie complessivi.
Insomma: poiché la nuova legge intende porre una disciplina a regime, destinata a durare, il premio complessivo da essa attribuito potrà essere utilizzato gradualmente fino alla sua consumazione. Ciò che risponde alla medesima logica della disposizione posta dell’articolo 3 comma 4 lett. h) della legge (che, in diversa fattispecie e in forma più complicata, si preoccupa anch’essa di garantire l’utilizzabilità delle premialità di legge nella loro misura complessiva).
La disposizione in esame è stata però oggetto di modifica da parte della legge regionale 29 del 2019, che ha inserito nel testo del terzo comma dell’art. 11 due importanti precisazioni.
La prima è quella per cui gli interventi degli articoli 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 – cioè quelli di ampliamento e di riqualificazione del tessuto edilizio – non danno diritto a una capacità edificatoria cumulabile tra loro.
La seconda precisazione è quella per cui tali interventi sono comunque consentiti una sola volta – cioè, sembra di capire, devono essere oggetto di un’unica domanda – anche se possono essere realizzati in più fasi, fino al raggiungimento degli ampliamenti e degli incrementi volumetrici e di superficie complessivamente previsti.
Precisazioni di cui la prima forse non era necessaria, data l’alternatività tra le due ipotesi degli articoli 6 e 7 della legge; mentre la seconda ha certamente una portata innovativa, e impeditiva del frazionamento degli interventi previsti dagli articoli 6 e 7 cit., che devono essere unitari (una volta sola) pur se suddivisibili in fasi.
Ma entrambe lasciano immutato il senso complessivo della disposizione in esame.
7. L’ultrattività del pregresso Piano Casa e i problemi rimasti aperti
L’intervento legislativo odierno sembra dunque aver individuato – sul tema del cumulo tra incrementi dimensionali – un criterio per il futuro.
È peraltro il caso di accennare che, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge regionale n. 14/2019, vi è una ultrattività del previgente “Piano Casa” – quello posto dalla legge regionale n. 14/2009 e successive modifiche – con riferimento alle domande di permesso di costruire e alle segnalazioni presentate entro il 31 marzo 2019.
Poiché la nuova legge non fornisce alcuna interpretazione autentica del testo legislativo precedente, è chiaro che la disciplina pregressa (ma ultrattiva) porta con sé le conclusioni e le incertezze create dalla giurisprudenza. Così con riferimento al cumulo di capacità edificatorie (per il quale persiste la necessità di confrontarsi con la citata sentenza 513/2018 del TAR Veneto); e così, naturalmente, anche per quanto riguarda le deroghe al d.m. n. 1444/1968 di cui sopra si è fatto cenno.
Le norme pregresse si applicano cioè così come sono e come vengono interpretate dalla giurisprudenza. Ivi compresa la possibilità di deroga alle distanze dai confini, e quella di deroga al d.m. 1444/1968 quanto alle altezze. Almeno finché la Corte costituzionale non avrà assunto le proprie determinazioni al riguardo.
Problema specifico potrà essere quello dell’applicabilità della pregressa disciplina di “Piano Casa” alle varianti presentate nelle pratiche pendenti; problema che andrà probabilmente risolto considerando la natura di ciò che si chiede di variare e il suo rilievo nella vecchia e nella nuova disciplina legislativa (mentre la distinzione tra varianti essenziali e non essenziali di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 380/2001 e, in ambito veneto, all’art. 92 l.r. n. 61/1985, se può costituire un primo riferimento, non sembra poter essere di automatica applicazione stante la peculiarità degli interventi quali assentiti dalla pregressa o dalla nuova disciplina di legge in via derogatoria rispetto alla pianificazione comunale).
8. Gli ampliamenti in zona agricola
Merita infine di essere segnalato un passaggio del terzo comma dell’art. 11, laddove viene espressamente confermata la capacità edificatoria riconosciuta “dalle normative per l’edificazione in zona agricola”.
È un passaggio significativo perché consente di superare un dubbio che avrebbe avuto altrimenti ragione di porsi con riferimento all’articolo 17 comma 3, che dispone che le premialità volumetriche o di superficie previste dalla nuova legge non siano cumulabili con quelle previste da altre leggi regionali.
Potrebbe infatti ipotizzarsi che tra le premialità non cumulabili vi sia anche la possibilità di ampliamento fino a 800 metri cubi della casa di abitazione in zona agricola, prevista dall’articolo 44 comma 5 della legge regionale 11 del 2004.
Conclusione che sembra appunto impedita dal passaggio testuale ora ricordato. Cosicché in zona agricola risulta ora possibile sia l’ampliamento fino a 800 metri cubi sia l’applicazione degli incrementi previsti dalla nuova legge (ovviamente, alle condizioni previste dalla nuova legge). Fermo restando che gli incrementi non si misurano più sulla volumetria prevista per legge, così come era previsto per le prime case di abitazione dall’articolo 3 bis comma 2 della legge regionale n. 14/2009 e successive modifiche, ma sul solo edificio effettivamente esistente.
9. I parametri del regolamento edilizio tipo: un problema solo rimandato
Il quarto comma dell’articolo 11 si misura con le problematiche relative all’obbligo dei Comuni di adeguamento al regolamento edilizio tipo; adeguamento che dovrà intervenire entro termini ora spostati al 31 dicembre 2019 dall’articolo 17 comma 7 della legge (spostamento peraltro piuttosto “timido”, giacché non porta all’unificazione di tale termine e di quello per gli adempimenti previsti dalla normativa in tema di contenimento del consumo del suolo con il termine posto dall’articolo 4 co. 2 della nuova legge per l’approvazione della prima variante finalizzata ai compiti ora imposti ai Comuni in funzione dei crediti da rinaturalizzazione; variante, quest’ultima, che in ogni caso si prevede venga rivista con cadenza annuale).
La scelta compiuta nel quarto comma dell’articolo 11 è quella che per l’applicazione della nuova legge ciascun Comune continui a fare riferimento ai propri parametri edificatori. Scelta in concreto comprensibile: finché non c’è un linguaggio unico, l’applicazione della nuova legge presuppone che gli incrementi da essa attribuiti vengano individuati presso ogni Comune prendendo a riferimento i parametri di quel Comune. Ma è da sottolineare che, quando vi sarà l’adeguamento al regolamento edilizio tipo e l’auspicata unificazione dei parametri di base, i cambiamenti sull’entità degli incrementi previsti dalla nuova legge potranno essere anche pesanti.
10. La monetizzazione delle aree non cedute
Una breve considerazione merita infine la previsione della possibilità di monetizzazione delle dotazioni territoriali ove inferiori a quelle minime, contenuta al quinto comma dell’articolo 11 della l.r. n. 14/2019 e riferita agli interventi di riqualificazione di cui all’art. 7 della legge in esame.
Anche in questo caso si tratta di una deroga al decreto ministeriale 1444 del 1968, al quale l’articolo 41 quinquies della legge n. 1150/1942 rimette la determinazione delle dotazioni minime da reperire nella pianificazione urbanistica.
La deroga ha qui trovato il suo fondamento anzitutto nella realtà delle cose, risultando spesso impossibile il reperimento di tali dotazioni in contesti già edificati (o risultando inutile, ove ad essere reperite fossero delle aree inadeguate per dimensioni e caratteristiche).
E le generali previsioni dell’articolo 31 della legge regionale 11 del 2004 – che consente ai PAT la rideterminazione delle quantità degli standard – e dell’art. 32 della stessa legge – riferito ai casi di non reperibilità delle aree all’interno di un piano attuativo – si inseriscono in un quadro che si era in tal senso delineato nella giurisprudenza amministrativa.
In questa prospettiva ha trovato riconoscimento anche l’istituto della monetizzazione, ovvero della quantificazione delle risorse economiche necessarie all’acquisizione di altre aree equivalenti a quelle non acquisibili in loco. Istituto concretamente imprescindibile ma da considerare con cautela, perché di per sé in grado di penalizzare determinate aree, sprovviste al proprio interno di dotazioni proporzionate agli interventi urbanistici ivi gravanti, con possibile pregiudizio di chi vi abita e vi opera.
Si rende dunque necessario garantire l’esistenza di un adeguato collegamento tra l’area interessata dagli interventi e le dotazioni recuperate altrove, oltre che garantire il mantenimento complessivo delle dotazioni territoriali.
Ed è in tale contesto che si inserisce la disposizione in esame, la quale risponde alla logica di rimettere alla pianificazione comunale la valutazione in concreto delle dotazioni necessarie a consentire l’intervento.
Resta peraltro, anche in questo caso, qualcosa di contraddittorio nella previsione di un passaggio attraverso la pianificazione urbanistica per consentire interventi di “Piano Casa” che per loro natura sono in deroga alla pianificazione.
La previsione si collega a quella dell’articolo 3, comma 2, della legge in esame, la quale impone che in ogni caso gli interventi degli articoli 6 e 7 siano subordinati all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria ovvero al loro adeguamento (e si rinvia al riguardo al commento specifico). Insomma, l’art. 11 co. 5 va interpretato in coordinamento con il principio espresso dall’art. 3 co. 2 cit., il quale a sua volta si riconnette al più generale principio di cui all’art. 12 co. 2 del D.P.R. 380/2001: in esso non può dunque rinvenirsi una rinuncia, pur compensata economicamente, alla dotazione territoriale riferita all’intervento, quanto piuttosto la possibilità di una diversa valutazione in tema di localizzazione delle dotazioni (ciò che – nelle intenzioni del legislatore – non dovrebbe penalizzarne la fruibilità neppure con riguardo all’area di intervento).
La disposizione in esame trova quindi il suo significato nel fornire delle indicazioni, sia pur generali, quanto ai criteri di collegamento tra le aree di intervento e quelle ove siano presenti le dotazioni territoriali; nonché quanto al rapporto tra monetizzazione e obiettivo perseguito (cioè il mantenimento delle dotazioni territoriali stabilite dal d.m. 1444 del 1968).
E in tutto ciò il ruolo prevalente non può che essere dei Comuni, cui spetta un ampio margine valutativo sulle scelte urbanistiche – con l’individuazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata nei quali gli interventi di riqualificazione consentano dotazioni territoriali inferiori a quelle minime, grazie alle dotazioni territoriali presenti in aree contermini o agevolmente accessibili – ma anche un’ampia discrezionalità tecnica con riferimento alla quantificazione dell’importo alternativo alla cessione.