Commento all’art. 11 l.r. n. 14/2019: A. Analisi normativa – B. Cenni critici su alcuni problemi connessi all’art. 11
Analisi normativa
di Monica Tomaello
Sommario: 1. La disposizione del comma 1 e la sempre attuale questione delle deroghe al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 – 2. Il permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del DPR n. 380/2001 per gli interventi “rilevanti” – 3. Il requisito del previo utilizzo della capacità edificatoria riconosciuta dal piano o dalla normativa sulle zone agricole – 4. Determinazione degli incrementi in termini di volume o superficie – 5. La monetizzazione alternativa alla cessione delle aree per dotazioni territoriali
1. La disposizione del comma 1 e la sempre attuale questione delle deroghe al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444
La disposizione del comma 1 disciplina le possibilità di deroga relative agli interventi di ampliamento di cui all’articolo 6 e di riqualificazione del tessuto edilizio di cui al successivo articolo 7 distinguendo due fattispecie. Innanzitutto, i suddetti interventi possono derogare ai parametri edilizi di superficie e volume previsti dai regolamenti e strumenti urbanistici comunali; tale disposizione si pone pertanto in continuità con quelle analoghe previste dal “vecchio” piano casa (legge regionale n. 14/2009 ora abrogata).
I medesimi interventi possono inoltre, a talune condizioni, derogare ai parametri edilizi di altezza, densità e distanze di cui agli articoli 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968. Il presupposto affinché tale deroga sia possibile è individuato dal Legislatore nella circostanza che ciò avvenga “nell’ambito di strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi”.
Tale ultima disposizione è posta in essere in attuazione di quanto disposto dall’articolo 2 bis del d.P.R. n. 380/2001 che statuisce quanto segue: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”
Non pare superfluo rammentare che il citato articolo 2 bis ha da sempre presentato rilevanti problematiche interpretative a partire dal fatto che la rubrica parla solamente di deroghe in materia di distanza tra fabbricati, mentre il testo fa generale riferimento a “disposizioni derogatorie” al d.m. n. 1444/1968, sembrando indicare la possibilità di introdurre deroghe a tutti gli standard. La norma inoltre lega le deroghe alla “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali ad un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali” senza un riferimento espresso alle fattispecie, potenzialmente rilevanti, di intervento in diretta attuazione del piano urbanistico generale.
A seguito dell’introduzione di tale disposizione nel Testo Unico dell’Edilizia, diverse Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Toscana, Umbria, Veneto), hanno emanato norme che consentono talvolta la deroga alle sole distanze e talvolta la deroga a tutti gli standard edilizi, così come talvolta la deroga riguarda solo interventi di riqualificazione urbana ricompresi in piani attuativi, altre volte invece anche interventi di demolizione e ricostruzione puntuali ossia su singoli edifici in diretta attuazione del piano urbanistico generale.
La Corte costituzionale però ha bocciato alcune di tali norme regionali; fornendo una lettura restrittiva e ritenendo la deroga applicabile solo nel caso di interesse urbanistico che si concretizzi in uno “strumento funzionale ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”.
A tal proposito, va ricordato che, con la sentenza n. 41 del 2017, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 1, lettera a) della legge regionale della Regione del Veneto n. 4/2015 laddove consentiva agli strumenti urbanistici generali di derogare alle distanze del d.m. n. 1444/1968 non solo all’interno dell’ambito dei piani attuativi, ma anche all’interno “degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente”.
Più precisamente, la norma regionale, proprio in attuazione di quanto previsto dall’articolo 2 bis del d.P.R. n. 380/2001, prevedeva che lo strumento urbanistico generale potesse fissare limiti di densità, di altezza e di distanza in deroga a quelli stabiliti dagli articoli 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968 “nei casi di cui all’articolo 17, comma 3, lettere a) e b), della legge regionale n. 11/2004 […] “con riferimento ai limiti di distanza da rispettarsi all’interno degli ambiti dei piani urbanistici attuativi (PUA) e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente”.
Più di recente la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 1 marzo 2019, n. 1431, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 8 bis della legge regionale n. 14/2009 (c.d. “piano casa”); più precisamente il Consiglio di Stato ha ritenuto che tale norma sia in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dal d.m. 1444/1968 e dall’articolo 2 bis, d.P.R. n. 380/2001, con conseguente violazione dell’art. 117, commi 2, lett. l), e 3 Cost., laddove non prevede che le consentite deroghe debbano operare nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali. A quest’ultimo proposito, la giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con specifico riferimento alle distanze – ma con una considerazione che, ad avviso del Consiglio di Stato, pare potersi estendere anche agli altri parametri del d.m. n. 1444/1968 – che la deroga può essere contenuta, “oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi”[1].
Tutto ciò per far comprendere il complesso e controverso contesto in cui si inserisce la disposizione qui in commento, con la quale il Legislatore regionale ha limitato la deroga ai parametri edilizi di cui agli articoli 7, 8 e 9 del d.m. n. 1444/1968 esclusivamente “nell’ambito di strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi”
Ad avviso di chi scrive, tale formulazione si configura come rispettosa dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale secondo la quale la deroga ai parametri del d.m. n. 1444/1968 deve ritenersi legittima a condizione che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario. La medesima giurisprudenza, peraltro, proprio con specifico riferimento ai piani urbanistici attuativi, ha ritenuto ammissibili le deroghe predisposte nel loro contesto “in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte” [2].
2. Il permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del DPR n. 380/2001 per gli interventi “rilevanti”
Innovativa è la disposizione contenuta nel secondo comma che prevede, di regola, per interventi particolarmente “rilevanti” (cioè che comportino la realizzazione di un edificio con volumetria superiore ai 2000 metri cubi o con altezza superiore al 50% rispetto all’edificio oggetto dell’intervento) e qualora non ricorra l’ipotesi di deroga al d.m. n. 1444/1968 di cui al precedente comma, il ricorso all’istituto del permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del d.P.R .n. 380/2001 con previsioni planivolumetriche.
La norma in commento prevede pertanto la contestuale duplice condizione della rilevanza dell’intervento (volumetria superiore ai 2000 metri cubi o con altezza superiore al 50% rispetto all’edificio originario) e della circostanza che non ricorra l’ipotesi di deroga al d.m. n. 1444/1968 (ipotesi disciplinata invece all’ultimo periodo del comma 1 mediante ricorso a strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche).
Com’è noto, l’istituto del permesso di costruire convenzionato – introdotto nel d.P.R. n. 380/2001 dall’ articolo 17, comma 1, lett. q), del decreto-legge n. 133/2014 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014 – prevede la stipula di una convenzione, approvata con delibera del Consiglio comunale, volta a specificare gli obblighi, funzionali al soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto attuatore si assume ai fini di poter conseguire il rilascio del titolo edilizio.
Il permesso di costruire convenzionato, pertanto, ben si presta ad essere utilizzato nelle ipotesi di deroga ai parametri previsti dagli strumenti urbanistici comunali (come per l’appunto quella prevista dalla norma in esame), potendo servire a definire meglio le condizioni alle quali la deroga medesima viene assentita e consentendo, al contempo, all’Amministrazione comunale di valutare appieno la consistenza dell’intervento e l’impatto rispetto alla pianificazione.
Considerata la peculiarità e l’oggettiva complessità delle valutazioni demandate al Consiglio comunale nella fattispecie procedimentale di cui si discute, valutazioni che assumono un carattere pianificatorio nella misura in cui possono determinare deroghe più o meno estese alla vigente strumentazione urbanistica, il Legislatore regionale ha inoltre introdotto l’obbligo di planivolumetrico al fine di assicurare una migliore valutazione dell’intervento laddove, al di fuori della pianificazione attuativa, si renda comunque necessaria la strutturazione di un rapporto giuridico tra la parte privata e l’amministrazione pubblica relativamente a profili collaterali al contenuto abilitativo del permesso di costruire.
3. Il requisito del previo utilizzo della capacità edificatoria riconosciuta dal piano o dalla normativa sulle zone agricole
Il comma 3 dell’articolo in commento stabilisce che gli interventi di ampliamento e di riqualificazione del tessuto edilizio ai sensi, rispettivamente, dell’articolo 6 e dell’articolo 7, sono consentiti “a condizione che la capacità edificatoria riconosciuta dallo strumento urbanistico comunale o dalle normative per l’edificazione in zona agricola, sia stata previamente utilizzata”.
Non pare superfluo rammentare che già la Circolare del Presidente della Giunta regionale 13 novembre 2014, n. 1, nel commentare il c.d. terzo “Piano Casa” precisava che “la deroga agli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi vigenti, per sua natura, si applica solo qualora non risulti possibile realizzare l’intervento oggetto di richiesta nel rispetto degli strumenti e regolamenti suddetti.”
Il Legislatore ora riprende e specifica tale concetto estendendolo anche alla normativa per l’edificazione in zona agricola: il riferimento è chiaramente alle disposizioni contenute nel Titolo V della legge regionale n. 11/2004 e, in particolare, nell’articolo 44.
La norma da ultimo citata oltre a indicare, al comma quattro, volumetria realizzabile ed interventi consentiti all’imprenditore agricolo, al successivo comma 5, disciplina gli interventi “sempre consentiti”, cioè, come chiarito con l’interpretazione autentica fornita con l’articolo 5 della legge regionale n. 30/2010, gli interventi “ammissibili anche in assenza dei requisiti soggettivi e del piano aziendale di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo 44” e, come tali, consentiti a tutti coloro che possiedono una casa di abitazione in zona agricola, a prescindere dall’essere o meno imprenditore agricolo.
Conseguentemente, solo qualora sia stata previamente utilizzata la capacità edificatoria riconosciuta dallo strumento urbanistico ovvero dalle norme in materia di edificazione in zona agricola sopra citate, gli interventi di cui trattasi sono consentiti; il Legislatore, in un’ottica di semplificazione ed economicità del procedimento, precisa che la suddetta capacità edificatoria può essere utilizzata anche contestualmente agli interventi in questione i quali, peraltro, possono essere realizzati in più fasi fino al raggiungimento degli incrementi volumetrici o di superficie previsti.
4. Determinazione degli incrementi in termini di volume o superficie
Il comma 4 dispone che gli incrementi in termini di volume o superficie vadano riferiti ai parametri indicati dallo strumento urbanistico e che all’interno di detti incrementi (siano essi ampliamenti, interventi di riqualificazione o interventi su aree dichiarate di pericolosità idraulica e idrogeologica) non siano considerati i volumi che la normativa vigente consente di non computare.
La norma riproduce quasi completamente le disposizioni contenute nell’articolo 1 bis, commi 2 e 3 dell’abrogata legge regionale n. 14/2019, tuttavia, per quanto riguarda i volumi scomputabili, il quadro normativo è mutato rispetto a quello esistente all’epoca dell’adozione del “Piano Casa” e delle sue successive modifiche.
Medio tempore, è infatti intervenuta l’Intesa riguardante l’adozione del Regolamento Edilizio Tipo (RET) di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del d.P.R. n. 380/2001, sottoscritta in data 20 ottobre 2016 in sede di Conferenza Unificata Governo Regioni ed Autonomie Locali.
L’intesa ha fin da subito sollevato un ampio dibattito originato principalmente dai dubbi sulla possibilità di garantire l’invarianza dimensionale al mutare delle definizioni usate, tuttavia non è questa la sede per approfondire il pur interessante argomento.
Ci si limita pertanto a ricordare che la Regione del Veneto, con delibera di Giunta regionale 22 novembre 2017, n. 1896 ha recepito il RET, di cui all’Intesa sopraindicata e, con successiva delibera 15 maggio 2018, n. 669, ha dettato linee guida e suggerimenti operativi per l’adeguamento da parte dei Comuni al suddetto RET.
Preso atto della necessità da parte dei Comuni di adottare una variante dello strumento urbanistico che tenga debito conto delle nuove Definizioni Uniformi aventi incidenza sulle previsioni dimensionali e, considerato altresì che tutti i Comuni devono variare il proprio strumento urbanistico in adeguamento alla delibera regionale n. 668/2018 sulla quantità massimo di consumo di suolo ammesso[3], il Legislatore veneto ha introdotto nella legge regionale n. 11/2004 l’articolo 48 ter[4]. Tale norma consente ai Comuni di adeguare il proprio strumento urbanistico con i tempi e le procedure previsti dalla normativa regionale in materia di contenimento del consumo di suolo; la scadenza per l’approvazione della citata variante di adeguamento è quindi il 25 novembre 2019 (cioè 18 mesi dalla pubblicazione nel BUR del provvedimento di Giunta regionale[5]).
5. La monetizzazione alternativa alla cessione delle aree per dotazioni territoriali
La disposizione del comma 5 dispone che i Comuni possano individuare ambiti di urbanizzazione consolidata nei quali gli interventi di cui all’articolo 7 consentono la cessione di aree per dotazioni territoriali in quantità inferiore a quella minima prevista dagli articoli 3, 4 e 5 del d.m. n. 1444/1968 “qualora sia dimostrato che i fabbisogni di attrezzature e spazi collettivi nei predetti ambiti, anche a seguito del nuovo intervento, sono soddisfatti a fronte della presenza di idonee dotazioni territoriali in aree contermini oppure in aree agevolmente accessibili con appositi percorsi ciclo pedonali protetti e con il sistema di trasporto pubblico”. In tale caso, precisa la norma in commento, il mantenimento delle dotazioni stabilite dal citato d.m. n. 1444/1968 è assicurata dalla monetizzazione, in tutto o in parte, della quota di dette aree.
La prima considerazione che sorge dalla lettura della disposizione è che, in realtà, i Comuni già possono fare tale operazione, in quanto la quantificazione degli standard urbanistici e la possibilità che gli stessi vengano soddisfatti con modalità alternative a quelle previste dal d.m. n. 1444/1968 è integralmente rimessa al piano regolatore generale[6] e, pertanto, è lecito presumere che il Legislatore abbia voluto, da un lato, rammentare e, dall’altro, meglio precisare tale facoltà.
Da qui la convinzione che, anche se la disposizione in esame fosse meramente ricognitiva, sarebbe comunque utile per il contributo che essa apporta in termini di certezza del corretto utilizzo dello strumento della monetizzazione.
Il tema della monetizzazione si presenta particolarmente interessante, ciò nondimeno non appare ancora sufficientemente analizzato in dottrina, mentre in giurisprudenza è stato precisato che la monetizzazione, che consiste “nel versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree, ogni volta che tale cessione non venga disposta”[7], si configura quale facoltà eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale[8] .
La norma regionale, che riguarda i soli interventi di riqualificazione del tessuto edilizio, condiziona la cessione di aree per dotazioni territoriali in quantità inferiore a quella minima prevista dagli articoli 3, 4 e 5 del d.m. n. 1444/1968 alla dimostrazione dell’esistenza di adeguate dotazioni in aree finitime o comunque di facile accessibilità mediante trasporto pubblico e/o percorsi ciclo pedonali. Sussistendo tale condizione, il mantenimento delle dotazioni stabilite dal d.m. n. 1444/1968 è garantito mediante la monetizzazione, totale o parziale, della quota di dette aree.
Spetta al Comune individuare all’interno gli ambiti di urbanizzazione consolidata – come definiti nell’articolo 2 lettera h) che richiama, a sua volta, l’articolo 2, comma 1, lettera e) della legge regionale n. 14/2017[9] – nei quali gli interventi di riqualificazione del tessuto edilizio consentano la cessione di aree per dotazioni territoriali in quantità inferiore a quella minima e, quindi, la relativa monetizzazione.
Non pare superfluo rammentare infine che la legge – articolo 3, comma 2 – subordina gli interventi sia dell’articolo 6 che, per quanto qui interessa, dell’articolo 7 all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria ovvero al loro adeguamento in ragione del maggiore carico urbanistico connesso al previsto aumento di volume o di superficie degli edifici esistenti.
La disposizione riprende in parte quanto già previsto dall’articolo 9, comma 4 del “vecchio” piano casa che, però, escludeva gli interventi realizzati sulla prima casa di abitazione. Nella nuova normativa tale distinzione non è presente, pertanto la presenza di opere di urbanizzazione primaria o l’adeguamento delle stesse costituisce sempre il presupposto per l’ammissibilità degli interventi.
[1] Cfr. sentenza n. 6 del 16 gennaio 2013, depositata il 23 gennaio 2013
[2] Ex multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014.
[3] Ai sensi dell’articolo 13 della legge regionale n. 14/2017, i comuni, entro 18 mesi dalla pubblicazione nel BUR del provvedimento di Giunta regionale che stabilisce la quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale e la sua ripartizione, approvano una variante di adeguamento dello strumento urbanistico generale (PRG o PAT) secondo le procedure semplificate di cui all’articolo 14 della medesima legge regionale.
[4] L’articolo è stato inserito dal comma 1, articolo 19 della legge regionale 20 aprile 2018, n. 15.
[5] Il provvedimento, il n. 668 del 15 maggio 2018, è stato pubblicato nel BUR n. 51 del 25 maggio 2018.
[6] V. Cons. di Stato, sez. IV,4 febbraio 2013, n. 644.
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 gennaio 2013, n. 32
[8] Ex multis Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2011, n. 824; Cons. Stato, sez. V, 4 marzo 2008 n. 805; TAR Campania, Salerno, sez. II, 16 gennaio 2007, n. 29; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 13 luglio 2005, n. 749)
[9]“[…] l’insieme delle parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, delle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive, delle infrastrutture e delle viabilità già attuate, o in fase di attuazione, nonché le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato e i nuclei insediativi in zona agricola. Tali ambiti di urbanizzazione consolidata non coincidono necessariamente con quelli individuati dal piano di assetto del territorio (PAT) ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”