Commento all’art. 7 l.r. n. 14/2017

di Emilio Caucci e Diego Signor

Art. 7

Rigenerazione urbana sostenibile

1. Sulla base dei criteri e degli obiettivi di recupero indicati dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 4, comma 2, lettera b):

a) il piano di assetto del territorio (PAT) individua gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile;

b) il piano degli interventi (PI), con apposita scheda, individua il perimetro dell’ambito assoggettato a un programma di rigenerazione urbana sostenibile dando gli indirizzi per la sua attuazione, ivi comprese le modalità di trasferimento di eventuali attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi di rigenerazione.

2. I progetti degli interventi per l’attuazione dei programmi di rigenerazione prevedono lo sviluppo di tipologie edilizie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici.

3. A seguito della individuazione degli ambiti di cui al comma 1, i soggetti pubblici o privati aventi titolo presentano all’amministrazione comunale una proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile, al fine di verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI. Il programma è corredato dalla seguente documentazione:

a) l’indicazione delle proposte progettuali di massima, eventualmente suddivise in singole fasi di attuazione, nelle quali siano evidenziati gli ambiti di intervento unitario, le eventuali misure compensative volte a garantire l’invarianza idraulica, valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio, le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie;

b) la relazione tecnico-illustrativa, contenente la descrizione delle finalità specifiche del programma di rigenerazione e degli interventi preordinati al loro conseguimento, nonché l’indicazione dei tempi di attuazione, degli elementi qualitativi e dei risultati attesi;

c) la relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima, che illustra costi e benefici attesi, con particolare riferimento alle modalità e ai tempi di realizzazione degli interventi previsti, alle fonti di finanziamento, alla sostenibilità economica dell’intero programma o delle singole fasi di attuazione;

d) uno schema di accordo con l’indicazione degli impegni assunti dai soggetti interessati, delle forme di coordinamento, delle modalità di monitoraggio periodico dello stato di attuazione del programma.

4. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile sono promossi dai comuni, singoli o associati, e sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32 della legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 “Nuove norme sulla programmazione” e dell’articolo 6, comma 2, della legge regionale 16 febbraio 2010, n. 11 “Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010”; l’approvazione degli stessi costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10.

5. Nell’accordo di programma le parti pubbliche possono prevedere forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione.

6. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale.

Sommario: 1. La “rigenerazione urbana”2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile4. Osservazioni conclusive.

1. La “rigenerazione urbana”

La “rigenerazione urbana” è un concetto che accompagna da almeno quarant’anni la nostra storia urbanistica, e come tanti altri ha cambiato sembianze e significato.

Negli anni Settanta si parlava di rigenerazione limitatamente al tessuto edilizio storico.

A partire dagli anni Ottanta, il concetto si è esteso a comprendere il recupero delle aree dismesse dopo la progressiva delocalizzazione delle industrie e di molti altri servizi fino ad allora in prossimità, se non all’interno, dei centri urbani.

La nozione attuale è ancora più ampia: coincide con la riqualificazione di interi quartieri o di ambiti urbani complessi, spesso costruiti con criteri di bassa qualità edilizia, architettonica e urbanistica.

Fino ad oggi, anche per il sostanziale inutilizzo della società di trasformazione urbana (art. 17, comma 59, l. n. 127/1997 e art. 120 d. lgs. n. 267/2000), l’obiettivo della rigenerazione è stato perseguito prevalentemente attraverso i programmi integrati ossia su iniziativa sostanzialmente privata, per ambiti definiti e in cambio di un beneficio pubblico da contrattare di volta in volta. La felice stagione dei programmi integrati ha tuttavia esaurito la propria forza propulsiva proprio nel momento in cui è venuta a mancare dal mercato una domanda capace di convogliare risorse private sull’attuazione di tali strumenti, che la legislazione e la pianificazione avevano sì sviluppato in forme sempre più flessibili, ma anche sempre incentrate su una capacità derogatoria dipendente dal riconoscimento di un beneficio pubblico ossia comunque di un sacrificio economico richiesto al privato principalmente in termini di opere pubbliche o di pubblico interesse.

Questa logica, insita nell’incentivazione di interventi extra ordinem con la concertata introduzione di deroghe o varianti alle previsioni di piano regolatore generale ma con la contestuale pretesa di una qualche forma di partecipazione pubblica al maggior valore che si stima generato dagli interventi (logica che, di fatto, caratterizza anche la disposizione di cui alla lettera d-ter introdotta nel 4° comma dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 dal decreto-legge “Sblocca Italia” del 2014), ha perduto impatto e attualità ed è stata ripensata facendo in primis della riqualificazione in sé stessa il “beneficio pubblico” (come già era in parte stabilito dall’art. 5, commi 9 e 11, del d.l. n. 70/2011[1]): e confermando – anzi, se possibile, implementando – l’incentivo ormai “classico” rappresentato dalla “deroga”, dalla “variante”, con il coinvolgimento di risorse finanziarie pubbliche per il tramite di modalità diverse rispetto a quelle caratterizzanti la fallimentare esperienza della società di trasformazione urbana.

A questa filosofia sembra ispirarsi l’articolo in commento, rubricato “rigenerazione urbana sostenibile”.

La “rigenerazione” riguarda ambiti di scala ben più ampia e complessa di quelli oggetto della “riqualificazione urbana” di cui all’articolo 6[2]. Lo attesta già la definizione di “ambiti urbani di rigenerazione” contenuta alla lettera h) dell’art. 2, comma 1, secondo la quale sono tali “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata” quali definiti nella precedente lettera e) del medesimo comma e “caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi”. Sempre la lettera h) del comma 1 dell’articolo 2, al cui commento si rinvia, prosegue elencando anche le specifiche finalità dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile (sostenibilità, contenimento del consumo di suolo; riduzione dei consumi idrici ed energetici; integrazione sociale, culturale e funzionale; soddisfacimento della domanda abitativa e coesione sociale; integrazione delle infrastrutture della mobilità veicolare, pedonale e ciclabile con il tessuto urbano, con le politiche urbane della mobilità sostenibile e con la rete dei trasporti collettivi; partecipazione attiva dei cittadini fin dalla progettazione dei programmi di intervento; innovazione e sperimentazione edilizia e tecnologica; sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, sicurezza sociale e superamento delle diseguaglianze sociali): da questo elenco si desume che la rigenerazione urbana va ben oltre l’aspetto urbanistico e ben oltre la sfera privata.

Vi è dunque, al fondo della norma, la piena consapevolezza che la rigenerazione di ambiti urbani estesi coinvolge una pluralità di fattori (sociali, economici, ambientali, urbanistici, edilizi) da coordinare ed integrare fra loro e può avvenire solamente sotto una chiara e forte regia pubblica: da parte della Regione, ma – prima e soprattutto – da parte del Comune interessato.

2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile

Il metodo di fondo per l’attuazione di queste finalità resta invero quello a cui è improntata l’intera legge ossia la delega ai Comuni – esercitabile dopo l’emanazione e nel rispetto dei criteri di individuazione e degli obiettivi di recupero dettati dalla Giunta regionale (art. 4, comma 2, lett. b) – del compito di individuare nel PAT gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile, procedendo poi nei PI a definirne più esattamente i perimetri e a dettarne gli indirizzi attuativi (fermo restando che nel caso di ambiti interessanti il territorio di più Comuni sarà il PATI lo strumento chiamato a coordinare, da un punto di vista pianificatorio, la possibile azione integrata degli enti comunali coinvolti).

Tale distribuzione nella pianificazione comunale, peraltro, non esaurisce affatto la disciplina degli interventi di rigenerazione ma ne disegna solo la cornice: implica e richiede, infatti, un terzo ed un quarto livello di attuazione, consistenti, rispettivamente, nella presentazione dei “programmi” e nella loro approvazione, che è approvazione regionale (cfr. infra).

In particolare, al PAT è demandato il solo compito di individuare, tenendo conto della definizione contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. h) e dei criteri dettati dalla Giunta regionale, gli “ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile”[3], al PI quello di fissare i perimetri (anche all’interno del più generale “ambito” delineato dal PAT, sembra di capire) e di dettare con scheda gli “indirizzi” dell’attuazione comprendenti anche, ma non solo, l’indicazione delle modalità di trasferimento delle attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure occorrenti a garantire il raggiungimento degli obiettivi (ferma la possibilità, nella fase di approvazione regionale del programma, di variare, ove necessario, specifiche previsioni della scheda [cfr. infra]).

Si tratta di una scelta consapevole e opportuna: la pianificazione comunale non deve e non può entrare nel dettaglio, lasciato alle proposte dei “soggetti pubblici o privati aventi titolo” [a loro volta frutto di ampia consultazione con la cittadinanza, nelle modalità anche procedurali che saranno definite dalla Giunta ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b)], e soprattutto non deve stabilire le destinazioni d’uso ma solo quelle “incompatibili” di modo che tutte le altre, per esclusione, devono ritenersi ammesse[4].

3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile

Una volta stabilita la cornice nella pianificazione comunale, entra in gioco il “terzo livello”, il quale a sua volta si articola in due momenti.

In un primo momento (comma 3), i “soggetti pubblici o privati aventi titolo” presentano al Comune una “proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile”, e il Comune passa a verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI.

La proposta, per scala e soprattutto per contenuti, non è un piano attuativo ma appunto un “programma” esteso a parti organiche della città (ad es.: una zona industriale), corredato da ben precisi elaborati.

Anzitutto, è corredata da una proposta progettuale “di massima”, articolabile in fasi di attuazione, alla quale si richiede di indicare gli ambiti di intervento che devono restare unitari, di garantire ove occorra l’invarianza idraulica e, se del caso, il potenziamento idraulico e si richiede altresì di specificare “le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie”.

È prevista poi una relazione tecnico-illustrativa per indicare finalità da perseguire, interventi da realizzare, obiettivi di qualità da raggiungere, mezzi e tempi di attuazione, risultati attesi.

Soprattutto, per questi programmi di rigenerazioni urbana che devono essere programmi “sostenibili” si richiede una “relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima”: relazione volta sì a rappresentare in termini economici costi e benefici attesi, ma più specificamente finalizzata a giustificare la serietà e la fattibilità dell’operazione (fonti di finanziamento e “sostenibilità”), fermo restando che la sostenibilità economica deve essere dimostrata in relazione all’intero programma ma potrebbe essere comprovata anche in relazione a “singole fasi di attuazione” e quindi, sembrerebbe di capire, accettando in partenza l’idea di una attuazione solo (e almeno) parziale (sulla falsariga, del resto, delle nuove disposizioni del d.lgs. 50/2016 sui contratti per la realizzazione di complesse opere pubbliche o di pubblico interesse in regime di concessione: disposizioni che consentono la possibilità di ammettere pure iniziative contemplanti parziali finanziamenti del progetto complessivo, a quel punto realizzabile anche limitatamente a singoli stralci tecnicamente ed economicamente funzionali).

La disposizione non arriva a richiedere espressamente che il piano economico-finanziario di massima, già in questa fase, sia accompagnato anche da idonea documentazione comprovante i possibili finanziamenti dell’iniziativa o da dichiarazioni di istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l’operazione. Vero è che, proprio per assicurare la fattibilità e la sostenibilità dell’iniziativa nel momento in cui la stessa prenderà concretamente avvio, potrebbe essere importante che gli atti approvativi del programma di rigenerazione urbana si premurino di analizzare e disciplinare anche questi profili (subordinando, ad esempio, la sottoscrizione di convenzioni attuative di singole fasi attuative alla dimostrazione della contestuale sottoscrizione di contratti di finanziamento) e, prima, si preoccupino del coinvolgimento degli operatori economici nella verifica sull’adeguatezza dei livelli di “bancabilità” dei progetti (reperibilità sul mercato finanziario di risorse adeguate; sostenibilità delle fonti; congruità della redditività del capitale investito): così da cercare di evitare il ripetersi di errori che hanno caratterizzato una certa fase della storia della programmazione integrata di riqualificazione nel Veneto, dove una non attenta valutazione preventiva sulla concreta ed effettiva sostenibilità economico-finanziaria dei progetti approvati si è tradotta nell’incompletezza, in fase realizzativa, degli interventi.

Da ultimo, il comma 3 dell’articolo 7 richiede che la proposta di programma sia corredata anche da uno schema di “accordo”, che sembrerebbe una forma attenuata e più generale di convenzione urbanistica in cui oltre agli “impegni assunti dai soggetti interessati” – genericamente intesi e perciò attinenti non alla sola urbanizzazione (che potrebbe anche mancare) ma pure ai tempi e modi di attuazione dell’interesse pubblico primario costituito dalla riqualificazione in se stessa – è contemplato il controllo periodico “dello stato di attuazione del programma”[5] (non le garanzie, dunque, demandabili a una fase successiva, dinanzi a un progetto compiuto). Lo schema di accordo potrebbe poi disciplinare anche forme per garantire la possibilità di “effettiva partecipazione degli abitanti” nella fase di gestione del programma, secondo le indicazioni (strumenti e procedure) che saranno date, sul punto, dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b), l.r. n. 14/2017.

In un secondo momento rientrano in gioco i Comuni: sono i Comuni, singoli o associati, a “promuovere” i programmi ricevuti e ad avviarli, se ritenuti meritevoli, alla approvazione regionale (comma 4): è implicito e inevitabile infatti che i Comuni compiano una prima valutazione discrezionale di ammissibilità, completezza e anche meritevolezza dei programmi, superata la quale essi, “in quanto di interesse regionale”, sono avviati all’approvazione mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto degli articoli 32 della l.r. n. 35, 2001 e 6, comma 2, della l.r. n. 11/2004.

Il tenore letterale della disposizione di cui all’esaminato comma 4 (“sono approvati, in quanto di interesse regionale”) si presta a una duplice lettura: quella secondo la quale detti programmi, se approvati, diventano “per definizione” di interesse regionale, come sembra suggerire anche una interpretazione sistematica (la norma disciplina la sola approvazione in sede regionale; i finanziamenti previsti ed il monitoraggio sono a livello regionale), e quella secondo la quale invece la forma di approvazione mediante accordo di programma “a regia regionale” trovi applicazione solamente in relazione a quei programmi di rigenerazione urbana che, per il peculiare contenuto o per l’ambito territoriale di intervento, siano ritenuti dalla Regione di interesse sovracomunale (intendendosi la locuzione “in quanto” come un “se” o un “laddove”).

Ad avviso di chi scrive, proprio la strategicità che la l.r.14/2017 ha voluto riconoscere a questi programmi di rigenerazione urbana (i quali ultimi in molti casi potrebbero richiedere una variazione alla strumentazione urbanistica locale e sempre richiedono una attuazione organica e coordinata dei complessi interventi previsti, con l’esercizio congiunto di più competenze amministrative) induce a ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre l’ultima fase approvativa di questi programmi alla sola sfera di competenza comunale (in cui rientrano invece gli interventi di sola “riqualificazione urbana” di cui all’art. 6).

L’utilizzo dello strumento dell’accordo regionale si giustifica anche per l’esigenza di prevedere a carico delle “parti pubbliche” firmatarie “forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione” (comma 5): fermo restando che l’approvazione di questi programmi “costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10” della l.r. n. 14/2017

Chiude l’articolo il comma 6, nel quale si stabilisce che i programmi, evidentemente approvati, hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale (cfr. sul punto anche art. 10, comma 1, lett. a) e b)).

4. Osservazioni conclusive

Ciò detto quanto al dato letterale, non mancano spunti di riflessione.

In primo luogo, l’articolo in commento pone un rapporto di consequenzialità ma non di dipendenza fra la “cornice” di indirizzi comunale e l’accordo di programma finale: la scheda del PI evidentemente non vincola ma appunto indirizza il programma, la cui approvazione ai sensi dell’art. 32 della l.r. n. 35/2001 e dell’art. 6, comma 2, della legge finanziaria regionale per il 2010 (l.r. n. 11/2010) consente, se necessario, ulteriori varianti, anche perimetriche: la norma peraltro non limita l’intensità delle eventuali varianti, né stabilisce se esse debbano avere un ruolo correttivo o possano stravolgere gli indirizzi dati dal Comune, che è parte dell’accordo.

In secondo luogo, merita una riflessione la flessibilità della disciplina delle destinazioni d’uso, anche in rapporto agli standard: gli ambiti di rigenerazione urbana sono “a destinazione d’uso residuale” – i Comuni possono solo indicare gli usi espressamente vietati – e in ragione di ciò, analogamente a quanto previsto per l’integrazione delle attività commerciali coi centri storici (art. 21, comma 6, lett. a) l.r. n. 50/2012), non è logicamente possibile predeterminare e tantomeno imporre nella scheda dotazioni di spazi a standard (es.: parcheggi): tale compito evidentemente spetterà al convenzionamento attuativo.

Va da sé che la norma non contempla altro beneficio pubblico se non la rigenerazione in sé stessa; rigenerazione che oltretutto può accedere sia alle forme di cofinanziamento e di incentivo stabilite nell’accordo (comma 5), sia ai finanziamenti regionali o ai bandi di finanziamento a regia regionale (comma 6). È quindi ontologicamente incompatibile coll’istituto la contrapposta previsione di un ulteriore “beneficio pubblico” in termini di contributo straordinario in denaro o in opere, ai sensi della citata lettera “d-ter” del comma 4 dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 (il comma 4-bis del menzionato art. 16 del T.U.E., dopo aver disciplinato il contributo straordinario su indicato, fa “salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali”).

Un cenno merita anche la procedura di accordo di programma regionale. L’art. 7 nulla aggiunge e quindi vale sempre lo schema tracciato dalla DGR n. 2943/2010, al netto però della prima fase di filtro rappresentata dalla delibera di giunta regionale attestante l’interesse regionale: tale valutazione preliminare, secondo la lettura interpretativa prima evidenziata, è infatti compiuta a monte dalla legge (“I programmi di rigenerazione urbana sostenibile … sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma …”).

Il tempo dirà se questa previsione porterà frutto o resterà sulla carta o, ancora, se esaurirà i propri effetti nel finanziare idee e progetti che resteranno tali.

È chiaro che più ampia sarà l’area da rigenerare (e quindi la platea dei soggetti interessati), più difficile sarà il perseguimento degli ambiziosi obiettivi delineati dalla legge. La stessa possibilità di suddividere in singole fasi di attuazione e per interventi unitari l’intervento programmato (schema già sperimentato in scala di pianificazione attuativa: cfr. art. 28, comma 6-bis, l. n. 1150/1942, introdotto dal d.l. n. 133/2014, convertito dalla legge n. 164/2014) costituisce una risposta solo parziale alle difficoltà generate dalla frammentazione dominicale.

Eppure la Regione non avrebbe potuto fare molto di più.

L’unico vero rimedio per superare l’opposizione dei dissenzienti, che va data per scontata in ambiti vasti a fronte della frammentazione della proprietà (si pensi ai grandi condomìni), è infatti l’espropriazione, che è soggetta a riserva (relativa) di legge statale: è lo Stato a declinare i casi in cui l’espropriazione è ammessa, a dettare i criteri di quantificazione dell’indennità e le regole del procedimento. La legislazione regionale può solo disciplinare aspetti di dettaglio, come avviene nella materia urbanistica a proposito dei comparti e dei piani urbanistici. Ne consegue che, mancando per forza di cose una disciplina specifica dell’espropriazione all’interno della “rigenerazione urbana” regolata dalla legge regionale nell’articolo in commento, e fin quando lo Stato non detterà disposizioni ad hoc, essa potrà e dovrà trovare spazio solo “a valle”, in sede di attuazione urbanistica, con i conseguenti aggravi procedurali.

Un altro elemento significativo, di forza e di debolezza al tempo stesso, è costituito dalla necessità di una forte regia pubblica, dall’inizio alla fine del processo: tale regia, considerate la complessità dei temi e degli obiettivi, la necessità di coinvolgere fin dalla programmazione i cittadini e la peculiarità delle procedure (dal PAT all’accordo di programma regionale, ed anche oltre, fino alla fase dell’attuazione concreta), richiede non solo saldezza o coerenza ma anche continuità politica e/o di visione strategica del futuro della città.

 

[1] Il comma 9 dell’art. 5 del decreto-legge n. 70/2011 (cd. “decreto sviluppo”, convertito dalla l. n. 106/2011) ha disposto quanto segue: “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano:

  1. il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;
  2. la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;
  3. l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;
  4. le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

[2] Nel primo testo del progetto di legge il termine “rigenerazione” era indifferentemente impiegato per gli interventi edilizi su singoli fabbricati e per quelli di recupero di interi ambiti degradati; inoltre presupponeva iniziative e finanziamenti principalmente privati.

[3] Il PAT non può e non deve fare altro che individuare gli ambiti; gli effetti di questa individuazione sono poi delineati direttamente dalla legge, la quale stabilisce iter e contenuti dei passaggi successivi.

[4] La necessità di un mix funzionale è affermata già nella citata lettera h) del 1° comma dell’art. 2, che fra le finalità dei programmi annovera al n. 4) la “compresenza e [la] interrelazione di residenze, attività economiche, servizi pubblici e commerciali, attività lavorative, nonché spazi ed attrezzature per il tempo libero”, e dallo stesso articolo 7 al comma 2, che impone ai programmi di prevedere “lo sviluppo di tecnologie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici”: le funzioni possono – anzi devono – essere diversificate, senza predeterminazione.

[5] Sulla verifica periodica dello stato di attuazione dei programmi di rigenerazione urbana approvati e degli eventuali finanziamenti del fondo regionale di cui all’art. 10, cfr. art. 15, comma 1, lett. a) della legge.

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