di Dario Meneguzzo, Marisa Fantin e Matteo Acquasaliente
Art. 2
Definizioni
1. Ai fini del presente Capo, si intende per:
a) superficie naturale e seminaturale: tutte le superfici non impermeabilizzate, comprese quelle situate all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e utilizzate, o destinate, a verde pubblico o ad uso pubblico, quelle costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superfici esterne della medesima natura, nonché quelle destinate all’attività agricola;
b) superficie agricola: i terreni qualificati come tali dagli strumenti urbanistici, nonché le aree di fatto utilizzate a scopi agro-silvo-pastorali, indipendentemente dalla destinazione urbanistica e quelle, comunque libere da edificazioni e infrastrutture, suscettibili di utilizzazione agricola anche presenti negli spazi liberi delle aree urbanizzate;
c) consumo di suolo: l’incremento della superficie naturale e seminaturale interessata da interventi di impermeabilizzazione del suolo, o da interventi di copertura artificiale, scavo o rimozione, che ne compromettano le funzioni eco-sistemiche e le potenzialità produttive; il calcolo del consumo di suolo si ricava dal bilancio tra le predette superfici e quelle ripristinate a superficie naturale e seminaturale;
d) impermeabilizzazione del suolo: il cambiamento della natura o della copertura del suolo che ne elimina la permeabilità, impedendo alle acque meteoriche di raggiungere naturalmente la falda acquifera; tale cambiamento si verifica principalmente attraverso interventi di urbanizzazione, ma anche nel caso di compattazione del suolo dovuta alla presenza di infrastrutture, manufatti, depositi permanenti di materiali o attrezzature;
e) ambiti di urbanizzazione consolidata: l’insieme delle parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, delle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive, delle infrastrutture e delle viabilità già attuate, o in fase di attuazione, nonché le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato e i nuclei insediativi in zona agricola. Tali ambiti di urbanizzazione consolidata non coincidono necessariamente con quelli individuati dal piano di assetto del territorio (PAT) ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;
f) opere incongrue o elementi di degrado: gli edifici e gli altri manufatti, assoggettabili agli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale di cui all’articolo 5, che per caratteristiche localizzative, morfologiche, strutturali, funzionali, volumetriche od estetiche, costituiscono elementi non congruenti con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, o sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza;
g) ambiti urbani degradati: le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’articolo 6, contraddistinti da una o più delle seguenti caratteristiche:
1) degrado edilizio, riferito alla presenza di un patrimonio architettonico di scarsa qualità, obsoleto, inutilizzato, sottoutilizzato o impropriamente utilizzato, inadeguato sotto il profilo energetico, ambientale o statico-strutturale;
2) degrado urbanistico, riferito alla presenza di un impianto urbano eterogeneo, disorganico o incompiuto, alla scarsità di attrezzature e servizi, al degrado o assenza degli spazi pubblici e alla carenza di aree libere, alla presenza di attrezzature ed infrastrutture non utilizzate o non compatibili, sotto il profilo morfologico, paesaggistico o funzionale, con il contesto urbano in cui ricadono;
3) degrado socio-economico, riferito alla presenza di condizioni di abbandono, di sottoutilizzazione o sovraffollamento degli immobili, di impropria o parziale utilizzazione degli stessi, di fenomeni di impoverimento economico e sociale o di emarginazione;
4) degrado ambientale: riferito a condizioni di naturalità compromesse da inquinanti, antropizzazioni, squilibri degli habitat e altre incidenze anche dovute a mancata manutenzione del territorio ovvero da situazioni di rischio individuabili con la pianificazione generale e di settore;
h) ambiti urbani di rigenerazione: le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi; tali ambiti sono assoggettabili ai programmi di rigenerazione urbana sostenibile, di cui all’articolo 7, finalizzati:
1) alla sostenibilità ecologica e all’incremento della biodiversità in ambiente urbano;
2) al contenimento del consumo di suolo;
3) alla riduzione dei consumi idrici ed energetici mediante l’efficientamento delle reti pubbliche e la riqualificazione del patrimonio edilizio;
4) all’integrazione sociale, culturale e funzionale mediante la formazione di nuove centralità urbane, alla qualità degli spazi pubblici, alla compresenza e all’interrelazione di residenze, attività economiche, servizi pubblici e commerciali, attività lavorative, nonché spazi ed attrezzature per il tempo libero, per l’incontro e la socializzazione, con particolare considerazione delle esigenze dei soggetti con disabilità;
5) al soddisfacimento della domanda abitativa e alla coesione sociale, mediante la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale;
6) all’integrazione delle infrastrutture della mobilità veicolare, pedonale e ciclabile con il tessuto urbano e, più in generale, con le politiche urbane della mobilità sostenibile e con la rete dei trasporti collettivi;
7) alla partecipazione attiva degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi di intervento;
8) all’innovazione e sperimentazione edilizia e tecnologica, promuovendo la sicurezza e l’efficientamento energetico;
9) allo sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, alla sicurezza sociale ed al superamento delle diseguaglianze sociali;
i) mitigazione: misure volte a mantenere le funzioni eco-sistemiche del suolo e a ridurre gli effetti negativi, diretti o indiretti, degli interventi di edificazione ed urbanizzazione del territorio sull’ambiente e sul benessere umano;
l) compensazione ecologica: interventi volti al ripristino delle condizioni di naturalità o seminaturalità dei suoli, finalizzati a compensare quelle perse con gli interventi di edificazione ed urbanizzazione, quali la bonifica e la deimpermeabilizzazione del suolo o gli interventi di cui all’articolo 6 della legge 14 gennaio 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi”;
m) invarianza idraulica: il principio secondo il quale la trasformazione di un’area non deve provocare un aggravio della portata di piena del corpo idrico ricevente i deflussi superficiali originati dall’area stessa;
n) potenziamento idraulico: misure volte ad effettuare tutti gli interventi preventivi sui corpi idrici superficiali indirizzati alla protezione dell’ambiente e delle persone in ragione dei radicali cambiamenti climatici.
Sommario: 1. Premessa – 2. Le singole definizioni; a) “superficie naturale e seminaturale”; b) “superfice agricola”; c) “consumo di suolo”; d) “impermeabilizzazione del suolo”; e) “ambiti di urbanizzazione consolidata”; – f) “opere incongrue o elementi di degrado”; g) “ambiti urbani degradati”; h) “ambiti urbani di rigenerazione”; i) “mitigazione”; l) “compensazione ecologica”; m) “invarianza idraulica” e n) “potenziamento idraulico” – 3. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La costruzione dell’apparato delle definizioni e, quindi, di un glossario condiviso di quanto viene declinato negli articoli successivi, riveste sempre un ruolo importante all’interno di un testo di legge. Nel caso di questo specifico disegno di legge si tratta non solo di intendersi sui significati, ma di costruire un progetto culturale a partire proprio dalle definizioni che sono, per la maggior parte, divenute patrimonio comune per chi ragiona di governo del territorio, di rigenerazione, di tutela ambientale. Questa legge non è solamente indirizzata a nuovi meccanismi di trasformazione del territorio, legata ad azioni di carattere urbanistico, ma è la risposta a una diffusa consapevolezza della necessità di mettere in sicurezza il territorio veneto dalle scelte sbagliate, non capaci di tutelare e valorizzare le risorse. La necessità di stabilire un limite al consumo di suolo, infatti, non deve far dimenticare che il territorio è un sistema complesso al quale le leggi settoriali possono rispondere solo in modo limitato. Per di più non sempre una nuova legge è una risposta sufficiente: serve un progetto, uno strumento che metta a frutto gli obiettivi e le finalità, che ragioni sui vincoli in modo selettivo e legato alla valutazione degli esiti, che promuova le buone pratiche e che sappia costruire una regia delle trasformazioni a garanzia di una rigenerazione complessiva e non episodica.
Alla base delle definizioni contenute nell’articolo 2 stanno le più recenti norme ed esperienze europee. A partire dalla proposta di Direttiva “Strategia tematica per la protezione del suolo dell’Unione europea” del 2006[1] che ha riconosciuto la necessità di ridurre gli effetti negativi del consumo del suolo. Quest’ultimi sono stati individuati dalla Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse del 2011[2], la quale contiene anche le strategie sul consumo del suolo che l’UE deve perseguire entro il 2020, nonché l’ambizioso obiettivo di imporre il consumo netto di suolo pari a zero entro il 2050. Nel 2012 la Commissione europea ha poi approvato le linee guida per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, indicando le priorità da seguire e rinviando agli Stati membri l’adozione della normativa di dettaglio[3]. Infine, nel 2013, il Parlamento europeo ha approvato il settimo programma di azione ambientale, ove si è ribadito che, per essere efficaci, le politiche ambientali devono essere coordinate con le altre politiche europee[4]. Di recente, nel 2016, la Commissione europea ha adottato il documento No net land take 2050, pubblicato all’interno del servizio “Future Briefs” dell’ufficio per le politiche scientifiche e ambientali della Commissione europea, che fa il punto sulle azioni da intraprendere per realizzare l’obiettivo dello stop al consumo del suolo entro il 2050. Ivi si legge che “consumo di suolo pari a zero” non significa impedire un’ulteriore estensione delle aree urbane e infrastrutturali, quanto che per ogni superficie di terreno antropizzata è necessario prevedere la rinaturalizzazione di una superficie di terreno di uguale estensione.
Questi principi europei sono già stati attuati da alcuni Paesi: Austria, Belgio (Fiandre), Germania e Lussemburgo hanno fissato limiti quantitativi all’occupazione di terreno. Questi valori, tuttavia, sono puramente indicativi e sono stati usati come strumento di monitoraggio: in Germania, ad esempio, i risultati ottenuti sono valutati regolarmente, ma dimostrano che, senza misure e programmi vincolanti, gli obiettivi indicati non bastano. In Andalusia (Spagna meridionale), invece, è stato adottato un piano territoriale regionale che introduce un limite quantitativo per i piani regolatori nei Comuni di piccole e medie dimensioni.
In Italia, è in corso di approvazione al Senato il Disegno di Legge S. n. 2383 che, già approvato dalla Camera dei deputati in data 12.05.2016, disciplina il “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. Il testo, di iniziativa governativa, mira al contenimento del consumo di suolo attraverso l’adozione di un limite quantitativo stabilito da una Conferenza unificata, che potrà essere implementato dalle Regioni in base a propri criteri. Questo testo mira a migliorare anche il riuso e la riqualificazione urbana, mitigando il processo di degrado e di impermeabilizzazione del suolo. Oltre a questo, anche altri Disegni di Legge di iniziativa parlamentare si occupano del tema, ad esempio l’Atto del Senato n. 1181 – Legge quadro per la protezione e la gestione sostenibile del suolo, che intende dettare una legge organica e sistematica sull’utilizzo suolo[5].
L’assenza di un quadro nazionale certo sul consumo del suolo non ha impedito alle singole Regioni italiane di definire alcuni limiti quantitativi, incidendo a livello di pianificazione e regolamentazione urbanistica locale. A tal fine ricordiamo che la Regione Lombardia ha adottato la L. R. Lombardia 8.12.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), mentre in Emila Romagna è ancora in corso di approvazione il Disegno di Legge recante “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio” che punta a ridurre fortemente le previsioni di nuove costruzioni al di fuori dei territori già urbanizzati. In Toscana (legge regionale 10.11.2014, n. 65) e nella provincia autonoma di Bolzano (legge provinciale 11.08.2009, n. 131) sono state approvate Linee guida indicative che tengono conto della qualità del suolo nella pianificazione territoriale e indirizzano le nuove costruzioni verso suoli di minor valore al fine di preservare le funzionalità esistenti.
2. Le singole definizioni
Con riferimento al contesto normativo, culturale e sociale nel quale la legge è stata scritta, le stesse definizioni sono accomunate dall’obiettivo di mettere in relazione le definizioni urbanistiche e le azioni progettuali con l’effettivo stato dei suoli. Non va infatti dimenticato che, nella maggior parte dei casi, gli strumenti urbanistici vigenti sono stati concepiti in una logica diversa rispetto a quella che dovrebbe essere alla base della riduzione del consumo di suolo. L’approccio progettuale e analitico, anche nei casi virtuosi, è legato alla logica della valutazione delle aree sulla base della loro propensione alla trasformazione. La regolamentazione proposta per il consumo di suolo si struttura principalmente sulla esigenza di salvaguardarne la integrità, evitandone la sottrazione alle attività agricole, promuovendo azioni di mitigazione dei rischi idrogeologico-ambientali, ed interventi di rigenerazione urbana che portino ad abbassare drasticamente gli effetti devastanti della cementificazione subita in questi decenni. Il contenimento del consumo di suolo deriva, dunque, da una logica opposta a quella della pianificazione tradizionale, che è quella di valutare le aree sotto il profilo della capacità di essere conservate. Dunque, è necessario rivedere anche le modalità urbanistiche secondo questo nuovo indirizzo che non è banalmente un divieto di costruire o di impermeabilizzare suoli, quanto la promozione di un metodo che lavora con l’obiettivo di conservare, anche quando ciò comporta la necessità di trasformare.
a) “superficie naturale e seminaturale”
La disposizione accomuna ed accorpa due concetti diversi, “superficie naturale” e “seminaturale”, analogamente alla Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 (Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche), che definisce in questi termini gli habitat naturali: “zone terrestri o acquatiche che si distinguono grazie alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali”. È logico supporre che il discrimine tra le due superfici previste dalla norma regionale debba essere ricercato nella diversità ontologica della loro origine: sarebbe “naturale” ciò che è frutto spontaneo della natura (i.e. prati incolti, boschi, foreste, torrenti, ruscelli) e semi-naturale quelle opere che, pur essendo biologiche, sono il frutto dell’attività antropica (i.e. prati coltivati, giardini, parchi, scavi). La disposizione comprende “tutte le superfici non impermeabilizzate”, all’interno delle quali sono comprese: le aree verdi presenti all’interno dell’urbanizzazione consolidata, quelle costituenti continuità ambientale, le aree agricole. Con questo si è inteso sottolineare l’importanza di valutare non solo i terreni agricoli o quelli esterni al tessuto consolidato, ma anche quelle aree verdi che, pur essendo all’interno del costruito, costituiscono continuità ambientale, ecologica e naturalistica. Con riferimento alle indicazioni degli strumenti urbanistici, va sottolineato che nella quantificazione del suolo disponibile deve essere considerato l’uso reale dei suoli e non tanto la previsione di piano: le aree di nuova edificazione non realizzate (in base alla definizione degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” di cui alla successiva lett. e), devono intendersi come tali le aree soggette a PUA non ancora approvati) devono essere comprese tra quelle che consumano suolo perché allo stato attuale sono aree libere a tutti gli effetti. Escluderle porterebbe ad una valutazione non corretta delle trasformazioni e andrebbe a premiare i Comuni che hanno sovradimensionato i piani rispetto a quelli che hanno programmato uno sviluppo più attinente alle reali esigenze.
Infine sottolineiamo che l’art. 15, lett. h) della legge attribuisce alla Regione il compito di stimare la superficie naturale e seminaturale, compresa quella agricola, che verrà recuperata in virtù della presente legge e che l’art. 20, modificando l’art. 13 della L. R. Veneto n. 11/2004, ha introdotto i concetti di “superficie naturale e seminaturale” anche nella legge veneta sul governo del territorio.
b) “superfice agricola”
Per “superficie agricola” si intende sia quella classificata come tale negli strumenti urbanistici comunali/provinciali/regionali sia quella utilizzata di fatto come area agricola[6], anche se in contrasto con la zonizzazione e con la classificazione urbanistica. L’utilizzazione dell’area deve rispondere a scopi “agro-silvo-pastorali”, ovvero alle tipiche attività svolte dall’imprenditore agricolo, ex art. 2135 c.c.. Alquanto generica, invece, si rivela l’espressione “spazi liberi delle aree urbanizzate”. A tal proposito riteniamo che il legislatore abbia voluto riferirsi a quelli spazi non edificati che, comunque, sono suscettibili di utilizzazione agricola.
c) “consumo di suolo”
Il consumo del suolo ricomprende non solo l’impermeabilizzazione della superficie naturale e seminaturale, come definita nella successiva lettera d), ma anche gli interventi di “copertura artificiale, scavo o rimozione”. Questi concetti, però, non sono stati enucleati dal legislatore. Si può ipotizzare che la copertura artificiale consista in ogni opera dell’umo che, anche se non impermeabilizza definitivamente il terreno (rectius: modificandone la natura e/o la composizione), lo copra temporaneamente, impedendone la permeabilizzazione; lo scavo, invece, dovrebbe implicare il dissotterramento del terreno che, però, viene mantenuto in loco; la rimozione dovrebbe concernere l’asportazione tout court del suolo. Tutte queste attività, inoltre, devono compromettere le funzioni naturali del suolo, ossia la sua permeabilizzazione. Dato che la norma utilizza il verbo “compromettere”, non è necessario che il consumo del suolo determini un’obliterazione totale delle funzioni eco-sistemiche e delle potenzialità produttive del terreno, essendo sufficiente anche una mera limitazione di queste potenzialità. Collegandosi con quanto già evidenziato con riferimento alla lettera b), sottolineiamo che il legislatore ha utilizzato una nozione “concreta” di consumo del suolo[7] e non una nozione “formale”[8]. Le altre nome della legge che si occupano del consumo del suolo sono: l’art. 1[9], l’art. 3 che indica le finalità della legge, l’art. 4 che contiene le misure di programmazione sul consumo del suolo, l’art. 8 che indica gli interventi di riuso temporaneo del patrimonio esistente, l’art. 11 che disciplina gli accordi di programma che possono derogare ai limiti del consumo del suolo, l’art. 17 che, modificando l’art. 8 della L. R. Veneto n. 11/2004, ha attribuito all’Osservatorio della pianificazione territoriale ed urbanistica il compito di redigere una relazione annuale anche sullo stato del consumo del suolo, oltre che sulle aree degradate e sui programmi di rigenerazione.
d) “impermeabilizzazione del suolo”
A livello europeo, il soil sealing è definito in questi termini: “L’impermeabilizzazione del suolo è la costante copertura di un’area di terreno e del suo suolo con materiali impermeabili artificiali, come asfalto e cemento”[10]. La definizione di impermeabilizzazione prevista dal legislatore regionale riguarda tutte le attività e le opere che, cambiando la natura del suolo (rectius: rendendolo definitivamente impermeabile) o coprendolo temporaneamente, “eliminano” la permeabilità dello stesso. Evidenziamo che, se il consumo del suolo di cui alla lett. c) implica soltanto una compromissione delle sue c.d. originarie funzionalità, l’impermeabilizzazione di cui alla lett. d) deve determinare l’annullamento della sua capacità assorbente[11]. Si tratta di una diversità terminologica dalle indubbie ripercussioni pratiche e giuridiche: se, da un lato, vi può essere consumo del suolo anche realizzando opere che non impermeabilizzano il terreno, dall’altro lato, ogni attività di impermeabilizzante determina un consumo del suolo. Anche qui la norma introduce un concetto che risulta privo di una chiara definizione, ove parla di “compattazione del suolo”. Si può supporre che tale concetto ricomprenda, in via residuale, ogni attività antropologica che, diversa dalla costruzione di edifici, impedisce il drenaggio delle acque a causa dell’eccessiva pressione/utilizzazione della crosta terreste[12]. Ricordiamo che nell’all. 5 degli Orientamenti della Commissione del 2012 sono indicati e descritti ben sette tipologie di materiali permeabili, ovvero: (1) prati rasati, (2) ghiaia inerbita, (3) grigliato erboso in plastica e (4) in calcestruzzo, (5) superfici aggregate con acqua, (6) pavimentazioni in calcestruzzo permeabile e (7) asfalto poroso. Infine, anche nell’art. 9 si parla di superfici impermeabili.
e) “ambiti di urbanizzazione consolidata”
La norma introduce la definizione degli ambiti di urbanizzazione consolidata. Questa definizione, però, desta qualche perplessità laddove statuisce che essi possono non coincidere con gli ambiti di urbanizzazione consolidata già definiti dal P.A.T., ex art. 13, co. 1, lett. o) della l.r. n. 11/2004. Come già evidenziato nel commento alla precedente lett. a), la disposizione in esame definisce come “ambiti di urbanizzazione consolidata”, oltre all’ “insieme della parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento” con le destinazioni urbanistiche (insediativa, dotazione a standard e ad attrezzature pubbliche) ivi richiamate, anche le “parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato”, oltre ai “nuclei insediativi in zona agricola”. Quanto alle aree comprese negli ambiti assoggettati a pianificazione attuativa, va evidenziato che il riferimento al “piano urbanistico attuativo approvato” si discosta dalla definizione delle “aree di urbanizzazione consolidata”, fornita dall’Atto d’indirizzo di cui all’50, co. 1, lett. f) (“contenuti essenziali del quadro conoscitivo, della relazione illustrativa, delle norme tecniche del piano di assetto del territorio e del piano degli interventi”) della l.r. n. 11/2004, approvato con D.G.R.V. n. 3811 del 9 dicembre 2009. In tale provvedimento, infatti, viene chiarito che nelle aree di urbanizzazione consolidata vanno ricomprese le “zone di completamento e le aree a servizi (zone F) già realizzate, con l’aggiunta delle zone in corso di trasformazione”, con la precisazione che “si intendono in corso di trasformazione anche gli Ambiti di Piano Attuativo con la relativa convenzione già stipulata”. Pertanto, la definizione che qui si commenta finisce per ampliare le possibilità di consumare il suolo, anziché ridurne l’uso. Detto in altre parole, introducendo una definizione di ambiti di urbanizzazione consolidata più ampia di quella dei P.A.T. comunali o dei P.A.T.I. intercomunali, la norma “favorisce” l’edificazione, perché gli interventi previsti dagli strumenti urbanistici generali ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidato sono “fatti salvi” dalla legge regionale (cfr. art. 3, co. 2 e co. 3, art. 5, co. 2, art. 6, co. 3, art. 11, art. 12, co. 1, lett. a)). Forse sarebbe stato auspicabile una definizione unitaria ed universale di questi ambiti, anziché realizzare un c.d. doppio binario. A livello procedimentale, la disciplina che i Comuni devono seguire per individuare e/o rettificare questi ambiti è contenuta nell’art. 13, co. 9.
f) “opere incongrue o elementi di degrado”
La norma si riferisce agli edifici singoli o a quei manufatti che sono incongrui o che si trovano in uno stato di degrado che li rende soggetti alla riqualificazione edilizia ed ambientale di cui all’art. 5. L’individuazione di queste strutture, però, lascia perplessi: la norma, infatti, attribuisce un’ampia discrezionalità alla Pubblica Amministrazione nell’individuare e/o nel definire le opere incongrue. A tal fine suggeriamo di porre in essere istruttorie articolate e approfondite per evitare di incorrere in valutazioni che potrebbero essere annullate dal Giudice Amministrativo per eccessiva genericità, disparità di trattamento o irragionevolezza. Le altre disposizioni che si occupano delle opere incongrue sono gli artt. 9, 10 e 15 della legge.
g) “ambiti urbani degradati”
Qui il legislatore ha inteso introdurre la definizione delle aree che, ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidati, sono assoggettabili alla riqualificazione urbana di cui all’art. 6. Si è in presenza di un ambito degradato se ricorre almeno una delle ipotesi di degrado previste dalla norma, ovvero: – degrado edilizio – degrado urbanistico – degrado socio-economico – degrado ambientale. Anche qui si tratta di valutazioni che i diversi enti competenti devono svolgere usufruendo di un’ampia discrezionalità amministrativa che, come già ricordato, non deve sfociare nell’irragionevolezza o nell’ingiustizia manifesta. Un elemento a favore di una valutazione “ponderata” potrebbe derivare dalla definizione di “qualità architettonica” contenuta nell’art. 9, co. 1 della legge, che fornisce vari parametri di riferimento. Sul concetto di degrado evidenziamo che l’art. 5, co. 9 della L. 12.07.2011 n. 106, di conversione in legge del Decreto Legge 13 maggio 2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo), aveva già attribuito alle Regioni il compito di approvare specifici testi normativi “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”. Questa norma statale, però, non conteneva le definizioni delle varie tipologie di degrado. A livello procedimentale, l’art. 15 attribuisce alla Giunta regionale il compito di redigere la ricognizione degli ambiti urbani degradati, come individuati dai singoli Comuni ai sensi dell’art. 6.
h) “ambiti urbani di rigenerazione”
La norma si riferisce alle aree che, ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidati, sono assoggettabili alla rigenerazione urbana e sostenibile di cui all’art. 7.
Con questa definizione si introduce il principio secondo il quale la rigenerazione urbana non può essere intesa in modo generalizzato, come recupero dell’esistente e delle aree dismesse e degradate; è necessario distinguere tra operazioni edilizie, recuperi di comparti edificati e rigenerazione urbana in senso proprio. Tutte queste trasformazioni sono importanti e contribuiscono alla riduzione del consumo di suolo, ma non sono tra loro equivalenti. Per questa ragione è importante distinguere gli interventi di rigenerazione urbana sostenibile, rispetto a quelli di riqualificazione edilizia, ambientale, energetica e a quelli di riqualificazione urbana. La rigenerazione urbana sostenibile comporta l’individuazione di ambiti urbani complessi, strategici con riferimento a territori ampi, ma anche a criteri di sviluppo economico, alla creazione di posti di lavoro, alla promozione della ricerca e della qualità dei luoghi. È un’operazione che deve essere gestita da un soggetto pubblico proprio per la sua estensione e complessità e deve anche essere sostenuta economicamente sia nella fase di progettazione sia nell’attuazione, costituendo un elemento prioritario per l’accesso a fondi regionali, statali ed europei. Anche in questo caso l’elenco dei temi e delle specificità che caratterizzano la rigenerazione urbana va oltre il ruolo della definizione e vuole costruire un concetto che non è solo utile a riconoscere tali caratteristiche nei luoghi, ma anche a orientarne la trasformazione.
Per comprendere appieno la portata dell’art. 7 è indispensabile leggere gli obiettivi della rigenerazione urbana indicati nella presente definizione. Sottolineiamo che questa disposizione, per essere applicata concretamente e correttamente dai Comuni, deve essere attuata assieme all’art. 7 ed all’art. 36 della l. r. n. 11/2004 che, come modificata dalla presente l. r. n. 14/2017, attribuisce al P.A.T. e poi al P.I. il compito di individuare gli edifici e le aree di cui alla lettera f), g) e h). La norma va coordinata anche con l’art. 4, co. 1, lett. b), che attribuisce alla Giunta regionale il compito di individuare i criteri e gli obiettivi per recuperare questi ambiti. Infine l’art. 15 invita poi la Giunta regionale a redigere la ricognizione degli ambiti di rigenerazione urbani come individuati ai sensi dell’art. 7.
i) “mitigazione”
Si tratta di quelle misure che, direttamente o indirettamente, permettono di limitare e/o neutralizzare gli effetti negativi causati dall’edificazione. La norma parla genericamente di “effetti negativi”. Questa espressione così ampia e generica, però, desta non poche perplessità, soprattutto a causa delle ovvie difficoltà connesse all’individuazione di questi effetti sfavorevoli. Merita osservare che la definizione introduce per la prima ed unica volta nel corpo della legge regionale l’espressione “benessere umano”. Da ciò si ricava che le misure previste da questa lett. i) devono mitigare non solo gli effetti negativi causati all’ambiente lato sensu inteso, ma anche quelli provocati alla salute umana ed al benessere psico-fisico dell’individuo. Si tratta davvero di un obiettivo apprezzabile, seppur alquanto difficile da realizzare[13]. Anche gli artt. 4 e 11 si occupano della mitigazione ambientale.
l) “compensazione ecologica”
La previsione prevede che gli interventi di edificazione devono essere compensati con altri interventi idonei a ristabilire le superfici naturali e seminaturali. La norma contiene alcuni esempi di questi interventi, quali la bonifica, la deimpermeabilizzazione e gli interventi previsti dall’art. 6 della L. n. 10/2013, che incentiva le c.d. cinture verdi attorno ai centri abitati ed il c.d. rinverdimento verticale sugli edifici. Si tratta di interventi meramente esemplificativi: nulla osta che la permeabilizzazione del suolo venga realizzata attraverso altri strumenti. Si parla di compensazione ecologica anche negli artt. 4 e 11.
m) “invarianza idraulica” e n) “potenziamento idraulico”
Si tratta di concetti già noti a livello europeo[14]. Con riferimento alla lettera n), va rilevato che la norma collega l’adozione di queste misure non tanto all’edificazione che impedisce, de facto, la permeabilizzazione del suolo, quanto ai “radicali cambiamenti climatici”, intendendo con ciò, verosimilmente, fare riferimento ai nuovi, impattanti, fenomeni metereologici, quali le c.d. “bombe d’acqua”, che rendono sempre più deficitarie le portate dei corpi idrici superficiali. Questi concetti sono richiamati anche nell’art. 3 della legge.
3. Considerazioni conclusive
Si tratta di una articolazione delle definizioni che raccoglie tutti i temi che compongono la cultura contemporanea, italiana ed europea, della salvaguardia dei suoli e della rigenerazione urbana.
Probabilmente non sarà semplice e immediata l’applicazione, perché è una scrittura “progettuale” che declina non tanto le limitazioni quanto gli obiettivi che si vogliono conseguire, mettendo assieme le aree naturali con quelle degradate, non in contrapposizione ma in sinergia tra loro. Dunque, la lettura non è univoca e richiede che si valuti il senso di quanto viene definito avendo a disposizione l’ampia cultura ed esperienza prodotta dalla lunga stagione della pianificazione in Veneto. Questo obiettivo è anche di difficile attuazione, perché richiede la capacità di tornare sulle scelte fatte e sulle aspettative che queste hanno generato. A tal fine serve avere presente che ciò che rimane dal suolo utilizzato per le urbanizzazioni non è un negativo del costruito, ma un compendio di aree verdi naturali e un sistema produttivo di alta qualità, quale è quello agricolo, che merita di essere affrontato non solo in termini di edificabilità (tema centrale delle diverse leggi regionali sulle zone agricole), ma di tutela, controllo dagli usi impropri anche ai fini colturali e valorizzazione economica.
Le parole, e anche gli strumenti, ci sono: esse, però, non devono essere tradite dal modo in cui vengono applicate o, ancor peggio, eluse.
[1] Trattasi della Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 22.09.2006 COM (2006) 231 definitivo. Ivi si legge che: “Per un utilizzo più razionale del suolo, gli Stati membri saranno chiamati ad adottare provvedimenti adeguati per limitare il fenomeno dell’impermeabilizzazione (sealing) tramite il recupero dei siti contaminati e abbandonati (i cosiddetti brownfields) e ad attenuare gli effetti di questo fenomeno utilizzando tecniche di edificazione che permettano di conservare il maggior numero possibile di funzioni del suolo”. Questa proposta di Direttiva, però, è stata ritirata dalla Commissione nella seduta del 30.04.2014 (pubblicata nella G.U. C163 del 28.05,2014), perché non vi era una maggioranza qualificata per approvarla.
[2] Trattasi della Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 20.09.2011 COM (2011) 571 definitivo. Ivi si legge che, poiché: “Nell’UE ogni anno oltre 1 000 km² di nuovi terreni sono utilizzati per costruire abitazioni, industrie, strade o a fini ricreativi e circa la metà di queste superfici è, di fatto, “sigillata”. La disponibilità di infrastrutture varia sensibilmente da una regione all’altra, ma complessivamente ogni dieci anni si edifica una superficie pari all’isola di Cipro. Se vogliamo seguire un percorso lineare che ci porti, entro il 2050, a non edificare più su nuove aree, occorre che nel periodo 2000-2020 l’occupazione di nuove terre sia ridotta in media di 800 km² l’anno. In molte regioni il suolo è eroso in maniera irreversibile o contiene bassissime quantità di materia organica, a cui si aggiunge il grave problema della contaminazione dei suoli”, l’obiettivo dell’Europa è che “entro il 2020 le strategie dell’UE terranno conto delle ripercussioni dirette e indirette sull’uso dei terreni nell’UE e a livello mondiale la percentuale di occupazione dei terreni sarà conforme all’obiettivo di arrivare a quota zero entro il 2050; l’erosione dei suoli sarà ridotta e il contenuto di materia organica aumentato, nel contempo saranno intraprese azioni per ripristinare i siti contaminati”.
[3] Trattasi del Documento di lavoro dei servizi della Commissione (Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione de suolo) del 15.05.2012 SWD (2012) 101 final/2. Ivi si legge che: “Il presente documento di lavoro dei servizi della Commissione descrive gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, attuati negli Stati membri. Limitare l’impermeabilizzazione del suolo significa impedire la conversione di aree verdi e la conseguente impermeabilizzazione del loro strato superficiale o di parte di esso. Rientrano in tale concetto le attività di riutilizzo di aree già edificate, ad esempio siti dismessi. Sono stati fissati obiettivi da utilizzarsi come strumenti a fini di controllo e per stimolare progressi futuri. La creazione di incentivi all’affitto di case non occupate ha altresì contribuito a limitare l’impermeabilizzazione del suolo. Laddove si è verificata un’impermeabilizzazione, sono state adottate misure di mitigazione tese a mantenere alcune delle funzioni del suolo e ridurre gli effetti negativi diretti o indiretti significativi sull’ambiente e il benessere umano. Tali misure comprendono, se del caso, l’impiego di opportuni materiali permeabili al posto del cemento o dell’asfalto, il sostegno all’infrastruttura verde” e un ricorso sempre maggiore a sistemi naturali di raccolta delle acque. Qualora le misure di mitigazione adottate in loco siano state ritenute insufficienti, sono state prese in considerazione misure di compensazione, ricordando tuttavia che è impossibile compensare completamente gli effetti dell’impermeabilizzazione. L’obiettivo è stato piuttosto quello di sostenere o ripristinare la capacità generale dei suoli di una determinata zona affinché possano assolvere le loro funzioni o quanto meno gran parte di esse”.
[4] Trattasi della Decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.11.2013 su un programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020 «Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta».
[5] Gli altri Atti del Senato di iniziativa parlamentare sono: A.S. n. 769 – Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo; A.S. n. 991 – Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo e la tutela del paesaggio; A.S. n. 1734 – Riconversione ecologica delle città e limitazioni al consumo del suolo; A.S. n. 1836 – Misure per favorire la riconversione e la riqualificazione delle aree industriali dismesse.
[6] Anche nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 1734 e nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 769 si ritrova una definizione di superficie agricola similare; al contrario, l’art. 2 del Disegno di Legge n. 2383 contempla soltanto le superfici dichiarate agricole dagli strumenti urbanistici.
[7] Una definizione similare di consumo del suolo è contenuta nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 2383.
[8] La diversità è lapalissiana dal raffronto con l’art. 2, co. 1, lett. c) della L. R. Lombardia 8.12.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato). Come correttamente statuito dal T.A.R. Brescia, sez. I, nella sentenza del 17.01.2017, n. 47, infatti, “La disciplina introdotta dalla l.r. n. 31/2014 ha la finalità di indirizzare la pianificazione urbanistica, a tutti i livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di suolo. La definizione normativa di consumo di suolo introdotta dall’art. 2 comma 1-c della l.r. n. 31/2014 (“trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l’attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali”) ha carattere formale, ossia prende in considerazione il territorio non sulla base dello stato dei luoghi ma per la qualifica che ne è stata data dalla zonizzazione”.
[9] Sul punto si ricorda che, a livello statale, l’art. 2 del Disegno di Legge n. 1181 contiene una definizione davvero esaustiva di suolo: “lo strato superficiale della crosta terrestre, formato da particelle minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi. Esso, grazie alla propria fertilità fisica, chimica e biologica, produce insostituibili funzioni e servizi ecosistemici nella produzione di alimenti e di altre biomasse, nell’immagazzinare e trasformare minerali, materia organica, acqua, energia e sostanze chimiche, nel filtrare le acque e gli inquinanti. Il suolo rappresenta la piattaforma dell’attività umana, oltre a costituire l’habitat di gran parte degli organismi della biosfera; esso è fonte di materie prime ed è testimone degli ambienti del passato; esso inoltre è componente essenziale della Zona critica della Terra, cioè dello strato che si estende dal limite più esterno della vegetazione fino alla zona in cui circolano le acque sotterranee. Il suolo è una risorsa soggetta a processi di formazione estremamente lenti e pertanto è da considerarsi una risorsa non rinnovabile”.
[10] Cfr. art. 2.1. degli Orientamenti della Commissione del 2012.
[11] Nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 1734, si definisce l’impermeabilizzazione come “l’azione antropica che ha come conseguenza la copertura permanente o semi-permanente del suolo”.
[12] Nel Disegno di Legge S. n. 1181 (Legge quadro per la protezione e la gestione sostenibile del suolo), all’art. 2, lett. d) si può rinvenire una chiara definizione di compattazione: “fenomeno causato da eccessive pressioni meccaniche, conseguenti all’utilizzo di macchinari pesanti o al sovrapascolamento. In seguito alla compattazione, il suolo perde la naturale densità e porosità, diminuendo la sua permeabilità e fertilità”.
[13] Anche negli Orientamenti della Commissione del 2012 si parla di benessere urbano, ove si statuisce, all’art. 8 dell’All. 4, che: “È ormai assodato che le aree verdi urbane contribuiscono al benessere e alla salute degli abitanti. Qualità e quantità di spazi e corridoi verdi in una città sono essenziali per i benefici sociali e ambientali. A parte il valore estetico, sono importanti per regolare flussi idrici e temperatura, oltre che biodiversità e clima. Infine, gli spazi verdi contribuiscono alla qualità dell’aria grazie all’effetto positivo sull’umidità che mantiene una città “in buona salute”. Pertanto un’impermeabilizzazione intensiva del suolo, senza spazi aperti di qualità sufficiente, soprattutto in zone altamente urbanizzate, riduce la qualità di vita e rende più difficile una vita sociale multiforme. D’altro canto, non si può trascurare il fatto che piazze e giardinetti asciutti e puliti (preferibilmente ma non necessariamente dotati di strutture verdi) sono essenziali per la vitalità delle attività sociali, per la comunicazione, lo svago e l’intrattenimento”.
[14] Nell’art. 2.2 dell’all. 4 degli Orientamenti della Commissione del 2012 si legge: “Un suolo coperto da vegetazione assorbe molta più acqua di uno coperto da materiale impermeabile o semi-impermeabile, anche se gli alberi catturano gran parte delle precipitazioni che evaporano prima di raggiungere il suolo sottostante. L’acqua in eccesso che non è assorbita o che è rilasciata solo lentamente dal suolo o dalle falde crea un deflusso superficiale lungo i pendii oppure forma delle pozze nei bacini. In ambiente urbano normalmente bisogna raccoglierla, canalizzarla e trattarla. Il deflusso superficiale può essere considerevolmente ridotto aumentando la percentuale di suoli aperti. Modificarne la capacità di infiltrazione è molto più complesso, perché dipende in larga parte da caratteristiche del suolo difficilmente modificabili. In una certa misura, i tetti verdi evitano il deflusso superficiale, sebbene la loro capacità di ritenzione idrica sia limitata e non paragonabile a quella del suolo aperto”.